Ospitiamo ben volentieri quanto ci scrive l’on. Agazio Loiero- politico di spessore e di lunga esperienza fatta nella sua attività in tutti i livelli di responsabilità istituzionali in cui è stato impegnato. Loiero ripercorre i momenti della sua vicenda processuale denominata “rimborsopoli” e dalla quale è uscito a testa alta a conclusione di un lunghissimo processo.
Il testo integrale della sua nota:
“Lo faccio saccheggiando una parte della mia dichiarazione spontanea resa in udienza lo scorso quattro luglio. Devo dire che ho trovato tanta attenzione da parte della Presidente, del collegio e anche della pubblica accusa. Segno che c’era una certa consapevolezza che un processo interminabile, lungo circa quindici anni, è destinato quasi sempre a falsare il valore di una sentenza. Il tempo accelerato di questi ultimi, frenetici anni finisce involontariamente ma implacabilmente per incidere in forma vertiginosa sul ritmo ma anche sul senso della nostra vita. Confesso che ho avvertito un po’ di titubanza a rendere una dichiarazione spontanea ma i miei eccellenti avvocati (e anche grandi amici) Guido Calvi e Nicola Cantafora, mi hanno consigliato di non sottrarmi a questo impegno. Ho esposto alcuni fatti della mia vita secondo me non estranei al processo. Ho esposto una breve cornice storiografica e di costume, sperando di non andare fuori tema. Sono stato – ho iniziato a raccontare - com’è noto, presidente di questa difficile regione. Ho subìto minacce, ho ricevuto proiettili in abbondanza, ma anche inchieste giudiziarie, che, per mia fortuna, si sono concluse favorevolmente in tempi non lunghi. Ho anche dovuto registrare con dolore, che, malgrado il lungo tempo trascorso, ogni volta si rinnova, l’omicidio del mio amico Fortugno, avvenimento rispetto al quale il procuratore nazionale antimafia del tempo, Pietro Grasso, e il PM d’accusa del relativo processo di primo grado hanno affermato che
il destinatario di quel tragico messaggio ero io.
Ho fatto queste considerazioni del tutto estranee al processo in corso, per le quali mi son pubblicamente scusato, per ribadire che, forte di questo macabro lascito, ho affidato - legge regionale alla mano - a due persone di fiducia la stesura meticolosa delle spese e dei rimborsi. Poi ho delegato a un mio grande amico magistrato che stimo oltre misura, la supervisione del testo. Ho appagato così la mia nota paranoia.
Ho aggiunto solo due altre cose. Aspetto con sofferenza da oltre quattordici anni l’esito di questa vicenda giudiziaria. Avrei potuto disporre di numerosi altri testimoni, ma ho contribuito a snellire i tempi del processo in favore di una sentenza da ottenere nel più breve tempo possibile perché l’attesa del verdetto, oltre a stressarmi, mi penalizza non poco. Il fatto di avere svolto in passato un certo ruolo politico mi ha condannato ad apparire spesso sulla stampa con una foto che il fluire del tempo, di anno in anno ingialliva, nel ruolo di imputato. Evento, questo, che ha stremato me e la mia famiglia che segue, fin dal tempo delle minacce, con una certa apprensione la mia vita anche in questi anni in cui, mio malgrado, l’attività politica, a causa di questo processo, non la svolgo più. Non senza sofferenza perché la politica è una febbre che, una volta contratta, è impossibile scacciarla dai gesti, dai pensieri, dalla vita. Una sofferenza, comunque, neanche lontanamente paragonabile a quella della mia famiglia in tutti questi interminabili anni. Si soffre infatti sempre con quelli che soffrono della vostra sofferenza. Con un sotteso senso di colpa per averli fatti piombare in questo sconfinato ingorgo esistenziale. C’è un altro argomento che ho inteso sottoporre alla Presidente, al collegio e alla pubblica accusa. Un argomento che, scrivendo della Calabria, ho in passato trattato perché ha a che fare con la sua storia. Sugli abitanti di questa regione pesano da secoli stereotipi incancellabili, accentuatisi negli ultimi tempi. Spesso anche dopo una sentenza liberatoria, sul calabrese assolto, il pregiudizio comunque resta. Esiste infatti un meccanismo psicologico che caratterizza lo stereotipo. Tutte quelle azioni che sembrano confliggere con lo stereotipo, la mente solitamente le respinge. Tutte quelle invece che, lo stereotipo, lo asseconda, la mente le accoglie con voracità. Ho voluto a tale proposito raccontare in udienza un brevissimo episodio che, tale assunto, lo dimostra in forma solare. Alla fine del primo anno da Presidente della regione, nella classifica di merito stilata tutti gli anni da “Il Sole24 ore”, giornale che, com’è noto, esce a Milano, sono balzato sorprendentemente al primo posto, diffondendo sorpresa specie nel mondo politico del Nord del Paese. Nel corso del secondo anno ho ricevuto uno scriteriato avviso di garanzia che ebbe un non comune risalto su tutta la stampa nazionale. Mi permetto di definirlo scriteriato perché il Pm di Catanzaro che lo aveva emesso, mesi dopo, non si presentò davanti al Gip per sostenerlo. Il Pm di udienza che arrivò a sostituirlo, dopo qualche settimana di approfondimenti del fascicolo, affermò testualmente che “neanche per sbaglio” Loiero poteva essere coinvolto in quella vicenda. Il Gip immediatamente mi prosciolse: Alla fine del secondo anno però “Il Sole 24 ore” mi posizionò all’ultimo posto della nuova classifica. All’ultimo, non al penultimo. Il pregiudizio era tornato ad aleggiare prepotente su di me e sul territorio che rappresentavo. Nei restanti tre anni ho dovuto fare salti mortali per scalare di nuovo quella classifica e attestarmi in una posizione abbastanza dignitosa. Intendo dire, semplificando, che un processo molto lungo rappresenta già una condanna implicita per qualunque cittadino. Per un calabrese spesso diventa una macchia permanente per il resto della vita. E questo capita spesso indipendentemente dall’esito del processo”
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