Cimino: "Non si chiama pace la sospensione dei fuochi sui popoli inermi"
Franco Cimino
09 ottobre 2025 20:02di FRANCO CIMINO
Non è finita, e non finirà presto. Non è la pace, ma soltanto una tregua: una prima, fragile interruzione della guerra. Tuttavia, è un risultato prezioso. Ogni atto che interrompa la strage di civili, il massacro di donne e bambini, è un fatto di importanza vitale. Non direi storico, ma certamente umano.
I due popoli, pur vivendo da decenni nell’odio reciproco, non ne potevano più di questo assurdo massacro, che ha inferto lutti gravissimi anche al Paese degli ebrei: proprio quello che si è voluto portare a essere occupante, oppressore e assassino. Le piazze di Gaza e di Tel Aviv, piene di gente in giubilo, testimoniano il bisogno di pace che accomuna gli uni e gli altri. È un sentimento profondo, che potrebbe trasformarsi in energia politica capace di mutare il corso degli eventi e la volontà dei comandi militari decisi alla perenne conflittualità.
Ma tornando all’accordo di Washington e oggi di Abu Dhabi, va sottolineato che ogni decisione capace di evitare anche una sola vittima — fosse un solo bambino palestinese — è da salutare con le campane a festa. È più di un semplice “accontentarsi”. Tuttavia, non possiamo illuderci né adagiarci su questi improvvisati allori.
Quello che si apre oggi potrebbe rivelarsi soltanto una breve sospensione dei bombardamenti. Ma prudenza e speranza restano d’obbligo.
Resta la domanda sui tempi: “Perché oggi e non mesi fa? Un mese fa? Una settimana fa? Perché non ieri? Quanti morti si sarebbero potuti evitare? Quante madri e quanti bambini si sarebbero potuti salvare?”
Non si dica che questa è una domanda inutile o fuorviante. Non la si bolla, come fu per la Flottiglia, come un attentato al processo di pace.
Questa guerra — anomala, sproporzionata, di un esercito potente contro un manipolo di combattenti e un popolo inerme — si sarebbe potuta fermare fin dall’inizio, come quella in Ucraina. Lo abbiamo detto sin da subito, anche dalla nostra piccola postazione etica e politica, forse insignificante ma sincera.
Vale ancora oggi un principio non codificato: la guerra finisce quando si stanca di se stessa. Quando non ha più nulla da distruggere, né vite da togliere. E così è oggi.
Basta guardare le immagini di Gaza rasa al suolo, contare i morti — oltre 70.000, di cui 20.000 bambini — e osservare la terra bruciata, dove per far rinascere un filo d’erba o un chicco di grano ci vorranno decenni. Sempre che “il nuovo sviluppo” non trasformi quella terra in terreno edilizio, da bombardare ancora con ferro e cemento.
Questa tregua, che qualcuno vorrà chiamare “inizio di pace”, è piuttosto la stanchezza della guerra. È il suo bisogno di riposare per rialzarsi, forse, più violenta di prima.
Rischia di apparire come la resa del più debole, dell’aggredito, del colpito duramente e insistentemente fino a cadere a terra in un incontro truccato, con un arbitro che cambia le regole a ogni round, quando non mena egli stesso colpi più forti del pugile “amico”.
La pace, parola che scrivo ancora con la minuscola, potrà esistere solo se al tavolo dei contendenti i nemici avranno pari dignità. Se ci sarà riconoscimento dei torti e delle ragioni, superamento dell’arroganza dei potenti e restituzione dei diritti negati a chi la guerra l’ha subita.
La pace nascerà quando i perdenti, gli oppressi e i derubati vinceranno sul terreno della diplomazia e della politica, non su quello delle armi. Quando i colpevoli saranno puniti secondo il diritto internazionale e nessuno potrà più nascondersi dietro il velo dell’innocenza o l’abito dell’assoluzione.
Essa si realizzerà solo rimuovendo gli ostacoli che ancora la impediscono. In primo luogo, riconoscendo e costruendo finalmente lo Stato palestinese, sul territorio già dichiarato nel 1993, con la firma di palestinesi e israeliani, e con gli Stati Uniti come testimoni.
La pace sarà autentica quando chi ha distrutto città e vite sarà chiamato a risarcire anche moralmente quelle devastazioni e a contribuire alla ricostruzione materiale.
Sarà vera quando verrà edificata in nome dei morti, non più secondo gli interessi dei vivi; in nome dei bisogni della gente, non dei profitti di chi sulla guerra vuole arricchirsi ancora.
La pace si farà quando nessuno vorrà più premi e medaglie costruiti sul dolore di migliaia di persone. Quando quei due milioni di palestinesi — uomini, donne, anziani e bambini — potranno tornare alle loro case. Quando le tendopoli del deserto saranno cancellate e la vita riprenderà.
Diventerà credibile quando il tanto celebrato Nobel per la Pace sarà assegnato e diviso tra coloro che, con il sacrificio della vita, l’hanno veramente servita: Amnesty International, la Flottiglia, l’UNICEF, Medici Senza Frontiere, la Croce Rossa e tutte le organizzazioni che difendono i bambini.
Avevamo ragione quando, all’inizio di questa guerra assurda, dicevamo che la guerra si sarebbe sconfitta da sola, seppellendo sotto le proprie macerie morali i guerrafondai che l’hanno voluta, i loro governi e le lobby, che li sostengono.
Quel giorno è arrivato quando i giovani, le donne e i movimenti per la libertà sono scesi in piazza. Le piazze del mare e delle città, animate dal semplice tamtam dei social, si sono riempite subito. Di belle persone. E anche di cori, canti, striscioni, grida. E hanno messo paura ai potenti di cartapesta che vorrebbero governare il mondo con la paura, le guerre e la povertà.
Oggi possiamo dirlo: questa prima fase l’hanno vinta loro, i ragazzi che hanno disertato la scuola, gli adulti che hanno scelto di scioperare, pagando di tasca propria. Come i “vacanzieri del mare” che, verso Gaza, hanno pagato con il rischio della vita la loro testimonianza.
E allora, se la guerra sarà sconfitta da se stessa, la Pace — quella vera, in maiuscolo — sarà conquistata dagli uomini e dalle donne che l’amano.