“Donbass, fedi, neonazismi: lo scenario che non ci è stato detto“

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Bilotti
  24 marzo 2022 08:03

di DOMENICO BILOTTI*

 
Esiste chiaramente un pregresso a ogni situazione di conflitto. Lo dimostra, da circa un secolo, la storiografia sulla Grande Guerra: quella sciagura che sulla carta nessuno avrebbe voluto portare avanti e che cambiò per sempre la fisionomia degli Stati e della loro politica. Andare a vedere i fattori è però sempre un esercizio postumo, somiglia più ad un'autopsia che a una prognosi. 
 
È un meccanismo interrotto: la verità è che guerra non dovrebbe farsene e tanto dovrebbe bastarci. Quanto alla situazione russa, molti hanno richiamato il tema delle piccole repubbliche indipendentiste sorte nel Donbass come attenuanti alla strategia di Putin. Anzi, come elementi giustificativi della sua azione: proteggere quelle terre dai "nazisti di Kiev". Non ci convince. Il Donbass è una regione geostrategica intorno agli otto milioni di abitanti, quasi un milione e mezzo di abitanti (le stime stanno in una forchetta tra gli ottocentomila e i due milioni: nemmeno il valore più basso ci conforta) è stato sfollato, trasferito, ha altrimenti perso casa o lavoro o famiglia. È come se in ogni tavolata di cinque persone uno venisse cacciato dalla sedia. In Donbass dal 2014 è forte (ma non esclusiva) l'opposizione al governo di Kiev, tra i combattenti russofili ci sono forze sociali di opposizione ma anche componenti neonaziste -come ve ne sono tra i resistenti ucraini. Difficile che Caio possa fare la morale antinazista a Tizio e viceversa: quelle componenti peraltro esprimono una sorta di revisionismo vendicativo che abbiamo visto in "dosi" in tutta l'Europa Est sin dalla caduta del Muro di Berlino. Milizie o gruppi che hanno avuto alleanze con la destra istituzionale, peraltro, in entrambi i Paesi. Scoprirlo oggi non solo è in ritardo sulle lancette della storia, ma oscura un fatto: anche i russofili del Donbass non stanno bene, non hanno trovato La Mecca a Mosca. Vi sono carenze persino idriche ed elettriche, in una terra che avrebbe da gestirne e usarne in abbondanza. Quel conflitto è poi in atto da otto anni: otto anni di tensione strisciante; quella guerriglia permanente che avviene anche quando non ci sono i media a raccontarla. Pescarla come una carta dal cilindro oggi e solo oggi è criminale, come scoprire oggi i fatti di Crimea o la violazione di libertà civili, politiche e sociali in Bielorussia (quando si suggeriva una buona bottiglia di vodka per curare il Covid-19). Scagliare la prima pietra lo si lasci al Vangelo, non spetta a chi rimastica questi fatti pensandoli inediti e scoprendoli invece ormai cronici. 

A proposito di Sacre Scritture... Tranne pochi qualificati e più attenti osservatori, abbiamo sostanzialmente espunto dal piatto della bilancia il fattore religioso nelle dinamiche di guerra, ma alcune considerazioni vanno assolutamente fatte. Innanzitutto, sul piano storico-demografico, tanto le regioni russofile, quanto quelle tradizionalmente favorevoli all'indipendenza di Kiev da Mosca hanno sempre registrato un non tenue pluralismo religioso sostanziale: comunità ebraiche plurisecolari, insediamenti di musulmani e forme del tutto autoctone di culti islamici, grande maggioranza di fedeli ortodossi ma collocati in modo diverso nelle tante Chiese che costituiscono l'ortodossia oggi. Convivenze a volte tese, ma esistenti, in radice opposte a un clima da guerra continua o da odio fratricida.

Quanto alle Chiese russe e ucraine, almeno sul piano teologico, le separazioni nell'ortodossia sorgono dalla natura autocefala di quelle Chiese: alla lettera, ciascuna posta a capo di sé. Ed è un principio che ha pesato purtroppo o per fortuna (magari, più "purtroppo") nella affermazione delle strutture nazionali in tutta l'Europa orientale sin dalla guerra nei Balcani: riconoscere lo Stato implica dargli la sua Chiesa? Ogni Chiesa che si separa dalla "madre" reclama per sé uno Stato nuovo? E ci sono aree di influenza per cui una Chiesa, formalmente distinta, ha il controllo sulle altre? 
Di là dai temi canonici, ci sono invero spigolature assai più concrete.

Poteva la Chiesa di Mosca assumere un profilo più favorevole alla pacificazione e più contrario all'aggressione? Il Patriarcato ha sempre puntato molto sull'identità russo-cristiana; nei documenti ufficiali quella identità geografico-religiosa assurge a baluardo contro una serie di presunti disvalori occidentali (procedure elettive, libertà civili, trasformazione dei costumi). Se la narrazione è questa, Putin se ne è voluto fare l'attore politico soprattutto nell'ambito interno. Oggi che è in gioco ricostruire un'area di influenza fuori dallo Stato e proiettata sugli altri Stati confinanti, la gerarchia russa avrebbe potuto e dovuto dissuadere un'operazione "militare speciale" che a noi per certi versi ricorda molto più Erdogan che l'Armata Rossa: è complicato per le popolazioni kurde che le subirono chiamare "ramoscelli d'ulivo" le bombe sulla loro testa. 

 
 
*Docente Umg

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