Filippo Veltri: "Strati ripubblicato è un autentico dono"

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Filippo Veltri
  02 gennaio 2021 17:33

di FILIPPO VELTRI

Dopo «Tibi e Tascia» e «La Teda»,  continua con «Il selvaggio di Santa Venere», la riproposta dell’opera omnia di Saverio Strati da parte della casa editrice Rubbettino. Il romanzo, vincitore del premio Campiello 1977, è tra i più noti e apprezzati dello scrittore di Sant’Agata del Bianco. 
L’edizione Rubbettino è impreziosita dalla prefazione del critico letterario Walter Pedullà, compagno di università di Strati e, come lui, allievo di De Benedetti.
Il racconto di Strati abbraccia tre generazioni di uomini: quella di Dominic Arcadi, il più giovane; di Leo, il padre Leo e del nonno Mico. I temi sono tanti: il rapporto con la terra, con il passato, la fuga dell’emigrazione (tema centrale nell’intera produzione narrativa di Strati) e soprattutto la ‘ndrangheta, fotografata mirabilmente da Strati nel momento in cui l’organizzazione si emancipa da quel mondo arcaico che l’aveva vista nascere.

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Come spesso accade con la letteratura, il romanzo di Strati, riesce ad anticipare molte questioni che saranno al centro del dibattito sulla criminalità organizzata di questi ultimi anni, dai riti di adesione al rapporto tra cultura e criminalità, fino alle ragioni per le quali un individuo finisce per rimanere invischiato nelle trame delle ’ndrine. 
Come ogni grande capolavoro, tuttavia, «Il selvaggio di Santa Venere» riesce a trasformare questi temi in materiale narrativo, senza diventare didascalico.

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Il “Selvaggio” è un romanzo moderno e potente che irrompe sulla letteratura meridionale anche grazie alla potenza del linguaggio, libero da forme e stilemi usuali:
«E’ difficile che qualche pagina resti al buio – scrive Walter Pedullà – e ancor meno al freddo: Strati butta nel fuoco un lessico stagionato che brucia tanto a lungo che le ceneri scottano tuttora. Ma forse, invece di linguaggio, dovevo parlare di lingua, che qui spesso si prende tutta la scena, quasi che poco o niente conti il contenuto. 
È la lingua che Saverio si è procurato - simbolicamente a Firenze – per scrivere narrativa cui affidare la realtà – allegoricamente calabrese – che negli Anni Settanta (o forse nel ventennio circa in cui pubblica – 1959-77 – le tre opere maggiori) tira fuori i mezzi espressivi più sofisticati messi in funzione nei decenni precedenti del secolo che ha inventato o riciclato più tecniche.
Il racconto lirico può essere canto a una voce sola, ma non il romanzo realistico (sempre narrativa fantastica, avverte Borges), al quale serve e non basta un’orchestra. Meno violini e più strumenti a percussione, comunque una musica adatta a marcare i significati univoci o polivalenti di un libretto che narra vicende cui resistono solo le pelli da tamburo. È stato raggiunto lo scopo palese o latente del viaggio di Strati a Firenze. Saverio ha imparato a manovrare l’italiano per dare ricchezza e intensità alla lingua nazionale, l’immissione di espressioni popolari che già furono proverbi dialettali: acquista sapore, densità e nutrimento. Come i vini da taglio calabresi che alzano la gradazione alcolica del Chianti.  È in virtù di questo italiano vigoroso, saporito e sapiente creato da Saverio Strati che Il selvaggio di Santa Venere è uno straordinario romanzo. Se conosco Giacomo Debenedetti, sarebbe piaciuto al massimo critico letterario del Novecento: l’avrebbe riconosciuto come libro scritto a regola d’arte moderna.
In quanto a me, quando mi domandano perché mi piace tanto questo libro, dico: “Per cominciare, la lingua. L’italiano di Strati, oltre a essere scabroso, elettrizzato, policromo dove lo pretende la condizione selvaggia che solo per cominciare è calabrese, è flessibile come giunco, inebriante come un Brunello e vibrante come un serpente in amore. È gustoso anche quando è sorseggiato ad apertura di pagina. Lo si beve anche a Firenze, dove l’italiano, se non è nato, è cresciuto. Come Saverio, che, da immigrato ricettivo, ha prodotto un italiano che gli intenditori mettono tra i più pregiati. Dell’annata? Non solo, anche del decennio. Poi c’è il resto: per cominciare…”».

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