Franco Cimino: "Cesarinu caru e puru tu tindaisti? Catanzaro nel dolore"

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images Franco Cimino: "Cesarinu caru e puru tu tindaisti? Catanzaro nel dolore"
Franco Cimino
  14 febbraio 2024 17:36

di FRANCO CIMINO

Per tutti era Cesarino. Lo era talmente che, credo, pochi conoscessero il suo cognome. È stato accanto alle nostre vite. Delle quali ha scrutato tutto. “Videava” gli avvenimenti che si sono succediti in un tempo che noi ancora non sappiamo quanto fosse lungo su di noi. Sulla Città. Ma nel suo occhio attaccato al teleobiettivo, c’era anche lo sguardo tenero sulle persone e sui loro sentimenti. Di uomini e donne semplici parimenti di quelli qui da noi considerati importanti e potenti. Timido fin quasi ad appartarsi, a tenersi lontano dagli stessi luoghi del suo lavoro. E dalle persone che lo popolavano.

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Appariva triste, come da una nostalgia fremente, un dolore nascosto, una solitudine invadente. Una domanda attesa. Di quelle che non gli arrivavano. Parlava poco. Sorrideva stretto. Tutto di lui appariva fragile. Come quel corpo sottile, che sembrava sopportasse a fatica il peso della telecamera che teneva sulle spalle, anch’esse sottili. Sono passati tanti anni dai suoi camminamenti su Catanzaro.

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La sua Città, che tanto amava. Del gonfalone civico e delle bandiere giallorosse, dei cui colori vestiva il collo e il cuore. Tanti anni con lui, che riesce difficili contarli, se non sui nostri che sono passati invecchiandoci. Quelli delle generazioni immediatamente precedenti e seguenti la mia, trovano difficoltà a misurare il tempo. La sua persona e la sua presenza costante, sempre attiva, dinamica, ingannavano. Era, infatti, rimasto sempre quel ragazzo che muoveva i primi passi suoi e di quell’emittente televisiva che sarebbe diventata, dal genio di chi l’ha inventata dal nulla, e dai ragazzi come lui che l’hanno servita, crescendo in sensibilità umana, in cultura civile, in professionalità e competenza, una delle televisioni più forti e importanti dell’intero Paese. Cesarino è rimasto uguale fisicamente.

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Anche durante la malattia che non gli ha dato scampo nonostante avesse tenacemente lottato per fermarla almeno un poco d’altro tempo ancora. Tutti i capelli, folti e castani, in testa. Energia, uguale. Il viso, uguale. Sempre giovane. Nessuna ruga, pieghe sottili, quasi invisibili. Ma gli occhi neri, quegli occhi neri, sempre aperti sulla realtà. Sempre accessi. Vispi. Intelligenti. Pur se velati da quella malinconia, che ne rivelavano l’infinità dolcezza e facevano di ogni fragilità la sua tenerezza sul mondo. Sulla vita. E su di noi, come una carezza che scendeva sui nostri affanni e sulle nostre false sicurezza e le più certe arroganti concezioni del mondo. Quelle carezze che ha donato da sempre a chi ne aveva bisogno attraverso quella instancabile opera di volontariato, che non solo attraverso L’Unitalsi, lo portava ovunque c’era debolezza. La debolezza di chi perdeva forza nelle battaglie per la vita.

E la debolezza di chi aveva dalla vita ricevuto le condizioni di una disabilità disarmante ed emarginante quando, nei luoghi a noi prossimi, non fosse curata, supportata, se non addirittura ignorata. Tutti ricordano l’eroismo che l’ha visto per intere notti e giorni rischiare la propria vita per salvare quella degli altri nell’ormai tristemente famosa tragedia de Le Giare di ventiquattro anni fa. Tragedia nella quale persero la vita tredici persone delle circa cinquanta che erano andate, con l’Italsi, a trascorrere, vicino al mare di Soverato, in quei nostri settembre che non chiudono l’estate, alcuni giorni di gioiosa “normalità”. Cesarino non si è mai dato pace per quelle morti. Non ha mai cancellato quel dolore immane. Dentro il quale la sua dolcezza e bontà naturali lo portavano a nascondere la rabbia che sentiva. Di non aver potuto fare abbastanza. Di non aver potuto scambiare la propria vita con quella di uno solo di loro. Magari di quel Vinicio Caliò, che lui non ha smesso idealmente di cercare.

La rabbia anche di vedere che da noi, e sempre sui più deboli, rovina la terra dei padri. E il fiume che si carica di tutta quella violenza che alla nostra Calabria è stata inferta dai pochi che non l’hanno amata e che, per egoismo e incompetenza, le hanno strappato tanta bellezza. Quanti anni aveva Cesarino? È la domanda che mi viene in questo giorno di dolore vero sentito da chiunque l’abbia conosciuto. Dolore anche mio. Mi rispondo: aveva l’età di ciascuno di noi. E quella dei giovani di oggi. Aveva l’età della nostra Città. Quella delle nostre vite. Del passato che era nella sua malinconia. E del futuro che era nella sua voglia di vita. Nella sua ottimistica visione della vita. Aveva l’età dei nostri sogni rimasti inchiodati in quelle immagini che ci ha consegnato, come un dono prezioso. Per tutti. Come memoria collettiva. Quella che ci servirà per continuare ancora a fare. E a fare bene. Il bene di tutti. Immagini che ci ricorderanno non come eravamo, ma come dovremmo essere.

Nel cuore di chi pensa in segreto che tutto possa essere più bello se noi lo vorremo. Cesarino, nella sua profonda umanità e nella sua grande umiltà, ci lascia questo insegnamento. Volergli bene più di ieri e per il nostro per sempre, ha un solo modo per praticarlo, seguirne il suo esempio. Scendere dal nostro piedistallo. E, finalmente, capire che c’è grandezza e amore in “ ragazzi” come lui più di quanto non riusciremmo a trovare sommando quelli di tanti di noi.

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