Franco Cimino ricorda Gianfranco Riccelli, "il grande dolore della sua perdita e la musica bellissima che ci lascia"

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images Franco Cimino ricorda Gianfranco Riccelli, "il grande dolore della sua perdita e la musica bellissima che ci lascia"
Franco Cimino
  02 marzo 2021 22:06

di FRANCO CIMINO

Brutto e cattivo, più che bastardo, maledetto Covid o come altro ti piace sentirti chiamare, centomila in Italia te ne sei presi, e più di cinquecento in Calabria. E tutti dopo averli fatti duramente soffrire e spaventati prima che andassero via senza il cenno di un saluto o una carezza, uno sguardo negli occhi, una stretta di mano, di un proprio caro nel momento dell’ultimo passaggio. Maledetto centomila volte, pure lui ti sei voluto prendere. Un uomo buono, ancora giovane con i suoi sessant’anni da poco superati, un carabiniere figlio di carabiniere, che, dopo aver contrastato il crimine e combattuto l’illegalità, ha girato il mondo per difendere la Pace e restituire la libertà ai popoli in lotta, anche fratricida dentro lo stesso Paese. Un uomo amante della vita, e che in nome di essa si é sempre battuto per l’affermazione della giustizia nella lotta, a viso aperto, contro ogni forma di discriminazione e di potere “ abusato” che l’ingiustizia, le diseguaglianze, la violenza dell’emarginazione, dello scarto e del rifiuto, determinano.

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Un uomo che alla fine di una lunga “ carriera”, con tante medaglie al valore nascoste sotto il maglione “d’ordinanza”( quelle ricevute e quelle che lo Stato si è “ dimenticato” di consegnargli), la sua divisa di persona semplice e schiva, essenziale nei gesti e nella forma, ha scelto di venire in Calabria, la sua terra. A viverci per quel che gli sarebbe rimasto del suo giorno. Ha scelto di abitare a Catanzaro, con la moglie e la sua seconda figlia, ancora piccola. Ha scelto una casetta, piccola e modesta, in uno dei vicoli più antichi del Centro storico dai quali ci si affaccia sul mondo. Una scelta, questa, per poter stare quotidianamente con gli occhi sul mare e le spalle alla montagna, perché anche per lui Catanzaro, è città del mare e dei monti, i suoi, quelli della piccola Sila nella cui Taverna egli è nato, come la sorella e il fratello e i suoi due genitori, tavernesi di generazioni.

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“Catanzaro è bellissima - diceva spesso - Pochissime città al mondo, come lei, possono darti la gioia di stare contemporaneamente con i piedi nell’acqua e la testa nel vento.” Soriano, nelle zone interne del vibonese era l’altra sua città tanto amata. Ci ha vissuto un po’ di tempo con la famiglia d’origine, “ emigrata di ritorno”, e nella quale spesso vi si recava per incontrare gli amici e la sua amata sorella. Che persona! Un calabrese a tutto tondo e uomo del mondo della buona globalizzazione. Quella da lui decantata e cantata, dichiarata e pubblicizzata, della terra senza confini ed eserciti armati. E senza recinzioni di alcuna natura, degli Stati e dei padroni. Gianfranco Riccelli è tornato in Calabria, con il suo cuore un po’ troppo gonfio di fatiche e sofferenze cosmiche-esistenziali.

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Vi è tornato non per riposare sulla sua poesia e cullarsi nella sua musica, ma per continuare la sua lotta per il Bene. Il Bene che passa per il riscatto delle genti, che non hanno bisogno di liberatori che subiscano la tentazione di diventare nuovi colonizzatori, come da lui spesso denunciato, ricavando questa accusa dalla storia della nostra terra. Il riscatto che passa dagli uomini che si liberano per via anche di una precisa presa di coscienza secondo la quale nessuno più che se stesso insieme con gli altri può battersi meglio in favore della propria terra. La terra dei padri. E del padre, a cui ha dedicato “liriche stupende”, per carezzare la memoria del suo cuore e sollecitare il rispetto dei figli di Calabria verso i padri, dei giovani verso i vecchi, necessario alla presa di coscienza di cui ho appena detto.

Gianfranco è tornato in Calabria non per nostalgia( la lontananza dalla prima figlia, residente lontano da qui, è sempre stata molto forte e a tratti struggente), ma per difenderne la Bellezza, di cui ancora, per fortuna, è per buona parte coperta. Per fare questo ha usato tutti gli strumenti che straordinariamente possedeva. Strumenti rari anche per molti geni creativi. Molti tra essi, infatti, non li possiedono tutti insieme e non li muovono in contemporanea e con quella eguale intensità come faceva lui. Sono quattro, gli strumenti: la parola, di cui era appassionato “cercatore” per poi trovarla nel suo cuore cuore di vecchio saggio, la musica, che aveva nell’anima come i negri del jazz e quella voce che sembrava stonata e rauca ed invece era intonata e melodiosa. Della sua chitarra e delle sue mani di amante fine sul corpo della bellezza femminile, non parlo, perché essa era un tutt’uno con il il suo essere artista, una parte del suo corpo, una compagna che gli camminava a fianco, con la stessa dolcezza con cui la sua dolcissima moglie gli stava accanto anche per le vie di Catanzaro.

Covid maledetto o come ti vuoi ancora chiamare mentre ti trasformi e ti rafforzi, ti sei portato anche lui, un artista, un grande artista. Un poeta, un musicista, un esteta, un contemplatore. Un dolente sognatore. Un arrabbiato idealista. Un affabulatore raffinato, un uomo di cultura profonda. Un pensatore originale, una persona schietta e leale, per il quale la menzogna e l’ipocrisia, al pari dell’egoismo e dell’indifferenza, sono l’altra faccia della violenza contro la persona e la propria terra. Ti sei portato via un chitarrista dalle dita di fata, forse tra i più virtuosi in assoluto nel panorama della musica italiana. Un creatore di eventi artistici e musicali di straordinaria capacità. Anche quella di imporli quali fatti unici o esclusivi, attorno ai quali costruire attenzione e partecipazione popolare e tutto ciò che di culturale ed economico vi ruota attorno. Ti sei preso anche lui, uomo buono e docile, generoso e delicato, dietro quel corpo massiccio e quel viso rugoso che ancora portavano i segni di una bellezza mediterranea mai sfiorita.

Noi adesso lo piangiamo. Tutti. E di lacrime vere, perché sentiamo già il peso di una perdita così pesante anche per una Regione e un Città che avevano immensamente bisogno della sua fatica e del suo impegno di uomo libero e di artista coraggioso. Nel dolore che mi prende, c’è una domanda che mi assilla dopo aver visto la foto che dall’ospedale ha inviato sui social per tranquillizzarci e per invitare tutti coloro che nella settimana precedente lo avevano incontrato, a farsi controllare dal medico. La domanda è questa: cos’ha pensato quando gli è stato detto che sarebbe dovuto andare in rianimazione? Ha avuto paura? Si è preparato, intimamente cercando, per quei pochi minuti prima del sonno procurato, un contatto altro, un dialogo Alto, oppure avrà esorcizzato il dramma con la sua solita ironia sulle sue magiche dieci parole: ” chi ci poi fara amicu meu, a vita è accussì”? E poi alla sua maniera, parafrasando una sua vecchia canzone, chiudere canticchiando:” ci stavu arrivandu vicinu ...fanculu vaccinu!”

Ps: la nostra Città deve molto all’uomo e all’artista. Mi piacerebbe, pertanto, che, se ci fossero ancora quegli altoparlanti in uso durante le festività natalizie, si diffondessero per le vie del Corso, nella giornata di domani, le musiche e le canzoni più note di questo grande vero maestro.

LEGGI QUI. La musica calabrese piange Gianfranco Riccelli. Lobello: "Catanzaro perde un interprete sincero e autentico"

 

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