Franco Cimino su covid e riaperture, libertà e liberatori, vita ripresa e vite perdute, politica della speranza e di Governo

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Franco Cimino
  19 aprile 2021 21:46

di FRANCO CIMINO

“Aperturisti e chiusuristi”, sono i due neologismi che ben rappresentano la divisione immancabile di un’Italia che si divide sempre e da sempre. Anche nei momenti in cui sarebbe d’obbligo mantenersi uniti. Prima ancora, e per almeno otto mesi dall’inizio della pandemia, la divisione tra gli italiani ha camminato su altri due termini. Sono: negazionisti e “affermativisti”.

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Nel bel mezzo ha pure ben sostato un altro neologismo, riduzionisti. Tutti termini inventati per coprire la propria responsabilità-quale politica, quale amministrativa, quale personale-nei confronti di un virus incompreso, ignorato, sottovalutato, strumentalizzato. Piegato, infine, agli interessi più che ai bisogni, alle paure di perdere consensi più che alle paure delle persone. Piegato alle logiche partitiche, alle invidie e alle gelosie politiche, alle misere ambizioni personali. In ultimo, alla volontà di raggiungere il potere più per la via degli insuccessi dell’avversario( spesso favoriti dalla strana lotta politica) che non per il valore della propria proposta e della propria immagine. Coperta da queste parole cattive, si è imposta per molti mesi una delle lotte politiche tra le più brutte che la storia italiana dal secondo dopoguerra ricordi.

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Una lotta che ha visto un solo cadavere, e due sconfitti: Giuseppe Conte, presidente del Consiglio “ cacciato”, il senso di responsabilità della Politica e del Parlamento. Ma non ci sono mai sconfitte e perdenti senza danni estesi oltre quei ristretti confini. I danni sono quelli che abbiamo dinnanzi agli occhi. E sono pesanti. Il primo è quello di aver inventato, per coprire inadempienze ed odiose rivalità e l’odio verso il presidente del Consiglio in carica, la figura di un superuomo che in un baleno avrebbe risolto tutti i nostri problemi. Un mago senza eguali, che con la bacchetta magica avrebbe in un solo momento portato i miliardi dei Ricovery nel più grande programma di sviluppo degli ultimi cinquant’anni, tanti soldi nelle tasche degli italiani più colpiti dall’emergenza sanitaria e la quantità di vaccini necessaria a mettere in salvo tutti, nessuno escluso, per avviare tempestivamente il rilancio competitivo della nostra economia. Un’invenzione, questa, che ha danneggiato per primo il protagonista.

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Quel Mario Draghi, che da quasi certo presidente della Repubblica si è trovato nella più accesa bagarre politica dalla quale difficilmente uscirà come il salvatore della patria e il rinnovatore della sua stessa figura, quasi universalmente considerata eccelsa. Oggi sono ancora rose, anche se il più bel rosso si sta quotidianamente scolorendo, ma presto arriveranno anche per lui, ordinate dagli stessi luoghi che lo hanno sempre promosso, le critiche ben mirate a far spazio ad altri che sapranno portare a compimento il mandato di consolidare il nuovo sistema economico globale del quale l’Italia è un tassello importante. Infatti, nello spazio dei pochi pochi mesi in cui l’ex presidente della BCE ricopre il nuovo incarico, tra i trenta occorsi per mediare tra i partiti la nascita del suo primo governo e i sessanta a palazzo Chigi, il Mario nazionale, opera con pieni poteri decisionali da cento giorni esatti. Che non sono pochi e neppure di scarsa importanza. Al contrario, i più importanti, perché sono quelli in cui normalmente si realizza il feeling tra un leader e il Paese. Il secondo danno è stato causato proprio alla lotta alla pandemia. Tra cambi di funzionari e commissari, errori di ricerca e commissioni, contratti sbagliati e accordi imbrogliati, confusioni e ingannevoli protagonismi delle regioni, l’Italia si trova a registrare un ritardo gravissimo proprio nella campagna vaccinale, l’impegno più pubblicizzato. In questa situazione e con i numeri assai inquietanti e per nulla rassicuranti, Mario Draghi, decide di “riaprire” il Paese.

Lo fa dopo aver negoziato giornate intere con i rappresentanti delle forze politiche ed aver piegato, con le sue notevoli capacità di mediazione, le resistenze dei diversi comitati scientifici e tecnici. Siccome egli ci ha abituato, forse per segnare l’unica discontinuità con il predecessore, alla sua stringata riservatezza dalla quale trasparirebbe solo l’immagine, che si celebra quale feconda, di governante che lavora molto e non parla affatto, dell’uomo del fare e non delle parole, non abbiamo mai potuto conoscere il suo vero pensiero in ordine alla emergenza sanitaria. Il cosa, cioè, ne pensasse lui, uomo, intellettuale, politico e amministratore. Neppure le sue brevi dichiarazioni programmatiche, sintetiche anche queste, rese al Parlamento nel giorno dell’approvazione della sua nomina, hanno reso chiaro il suo orientamento. Ma tant’è, oggi questa é la decisione. Una decisione, che sembra molto quella di un terzo, di un arbitro nella contesa. Di un decisore nella conflittualità duale. È, pertanto, lecito affermare che hanno vinto gli aperturisti ed hanno perso i... “chiusuristi”. Se anche qui la malizia non ci inganna, possiamo agevolmente anche affermare che questo è il prezzo generalizzato per la permanenza del ministro Speranza al governo. Diciamolo francamente, ha vinto Salvini, comunque la si voglia mettere. E diciamolo ancor più schiettamente, ha vinto quell’altro Matteo. Il politico cioè che ha collezionato più odi a destra e a manca, da procurare alla sua vanità il piacere di essere nuovamente primo in qualcosa. Infatti, è stato Matteo Renzi che da inizio pandemia, e anche per “simpatia” nei confronti dell’usurpatore del suo trono a Palazzo Chigi, reclama a gran voce la riapertura di tutto.

Ed anche “sul tutto e subito” il teorico del “nuovo rinascimento arabo” viene decisamente prima di Giorgia Meloni, la cui strategia vincente, però, discuteremo in altro specifico spazio, atteso che, stranamente, nei salotti buoni e nei giornali stampati e on line non se ne parli affatto. Se dunque hanno vinto i Matteo, va da se che hanno perso tutti gli altri, mentre appare giochino di bambini il tentativo di accaparrarsi il successo a più fette distinte e separate. Per esempio, il ministro della Cultura, l’inamovibile Dario Franceschini, per la riapertura di teatri e le attività concertistiche, il sottosegretario allo Sport, Valentina Vezzali, per la riapertura degli stadi, delle piscine e delle palestre. E così via dicendo, fino ad arrivare alla parte più estrema della sinistra di governo nell’alleanza trasversale meno unitaria che si potesse concepire. È evidente che se nella vittoria di una parte si inseriscono le singole vittorie di tutti, di ciascuno e di tutto un po’, a vincere non è la politica, pur questa misera operante ormai da decenni. Parimenti non vince il governo, che mostra di non avere una visione strategica della crisi e del suo superamento nella prospettiva del rilancio dell’Italia. Non vince il Paese, che resta ancora più impietrito dinanzi a tanta incertezza, a tanta confusione e pienamente smarrito nelle profonde paure della maggior parte degli italiani. Potremmo di dire di tutti gli italiani se al terrore per i vaccini insicuri e a giorni alterni dichiarati pericolosi, si aggiungessero gli operatori economici complessivamente intesi che vedono assai incerto il futuro, gli occupati che temono di perdere il lavoro e i disoccupati di non trovarlo più.

Ovvero, le famiglie e i portatori di reddito fisso che di notte vivono l’incubo di una prossima feroce tassazione che accorcerà di molto il reddito familiare. Non vincono i veri sofferenti della chiusura, cioè i commercianti, gli albergatori e i ristoratori, gli operatori del turismo, lasciati soli nelle piazze poco affollate o dentro i negozi chiusi, in attesa di ristori che non arrivano neppure nella quantità assai insufficiente rispetto alle necessità e ai danni subiti e a quella del momentaneo “ ristoro” per le proprie famiglie. Non vince la Scuola, che riapre senza che sia stata rimossa una sola delle molteplici criticità che rendono il complessivo “viatico”dei nostri ragazzi ancora assai esposto alla facile presa del Covid e alla sua più rapida diffusione sul territorio. Non vincono quanti hanno desiderato fortemente di essere liberati( da cosa, da chi e per che cosa?) perché su di loro sarà fatto ricadere la responsabilità di un pericoloso ritorno impetuoso del virus se la loro “libertà ritrovata” non venisse rigidamente contenuta nei limiti e nel rigore imposti dalla pandemia. Quei limiti e quel rigore che non abbiamo mantenuto nella larghezza delle maglie di una recente zona rossa e arancione con una certa disinvoltura vissute. Sono ancora i numeri, però, a dirci la verità. Essi sconsigliano la decisione assunta. Sono i numeri, specialmente quelli che meno registriamo nel cuore, i quattrocento morti di media al giorno e quelli che ancora riempiono i reparti e le terapie intensive. Sono questi che più ci consigliano di aspettare ancora qualche giorno.

Gli esperti dicono un paio di settimane al massimo. Sono i numeri che ci invitano a guardare alla strategia applicata nella prima fase della pandemia. Quella strategia che dopo di noi i governi europei ed anche quello statunitense in verità, hanno impiegato al loro interno con i risultati positivi (vedi Gran Britannia, Francia e Germania) che sono stati registrati. Risultati, tanto buoni da consentire loro ( vedi anche Israele) il lusso di riaprire tutto e pienamente. Come sono riusciti, copiandoci, a raggiungere risultati così straordinari? Non è per nulla difficile capirlo. Hanno applicato il massimo del rigore, la più estesa e rigida chiusura, hanno coperto adeguatamente, con sostegni importanti e pronto cassa, i danni causati da questa necessità, e vaccinato vaccinato vaccinato. Coperta, poi, dal vaccino più della metà della popolazione e quasi tutta quella più esposta, la cosiddetta fragile, hanno riaperto in sicurezza. Quella vera, non quella retoricamente decantata dai nostri capipartito in questi giorni.

La fragilità invece della nostra decisione politica, i più attenti la troverebbero proprio nelle ultime dichiarazioni di Mario Draghi: "Dobbiamo prenderci un rischio ragionato”. Che significa? Se avesse detto:” dobbiamo prenderci un rischio consistente affidandoci alla pietà del Covid, alla sua auspicabile stanchezza, alla fortuna se non proprio clericalmente alla volontà di Dio”, sarebbe stato più credibile nel dire a tutto il Paese di fare, questa volta davvero unito, la propria parte. Una parte buona. Di responsabilità applicata alla prudenza e all’autodeterminazione nel comportarsi, ciascuno nel proprio ruolo sociale, secondo le rigide regole di contrasto al demoniaco virus. Così non è stato, prendere e non poter lasciare. Se la mia, di malizia, non mi inganna, il pensiero che l’anticipata riapertura sia determinata dalla furbizia di coprire la responsabilità politica, la più estesa, per i gravi ritardi con cui si sta attuando, e di più si attuerà, il piano vaccinale, è più che un sospetto “ malizioso”.

E questo, purtroppo, aggiunge preoccupazione per la già difficile ripresa economica, dispiacere per quanti non arriveranno in tempo al vaccino e saranno costretti a subire le conseguenze terribili della malattia. E dolore, tanto dolore, per i morti. Quelli dell’esercito dei centoventimila e quelli che, a questo esercito senza divisa, loro malgrado, si arruoleranno.

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