Franco Cimino: "Virginio Rognoni, un grande della politica, il democratico sincero e pensatore profondo"

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Franco Cimino
  23 settembre 2022 18:46

di FRANCO CIMINO

É morto Virginio Rognoni. Era vecchio, dice l’anagrafe. Era vecchio, dice il nuovismo di questi ultimi vent’anni. Era molto vecchio, dice chi non ama ascoltare quei politici “ di una volta”, che non prendono la parola senza conoscere l’argomento in discussione e che non si portavano all’impegno politico senza aver studiato e senza la volontà di non smettere mai di studiare. Era vecchio per chi pensa che parlare lungo e pensoso, da pensiero prodotto, è una cosa fastidiosa che altro non farebbe che tediare l’uditorio e tanto tempo far perdere ai decisionisti, nella deprecabile interpretazione che politica sia soltanto decisione, la più sbrigativa, azione del governare rapido e asciutto. Era vecchio per chi ritiene che sia ridicolo preoccuparsi, studiando le posizioni altrui, delle ragioni degli altri, potendo, e doverosamente dovendo, trovare i molti punti di convergenza per la soluzione dei problemi più importanti, perché la Democrazia è il luogo in cui maggioranza e opposizione vivono della stessa dignità, come Democrazia stessa vive se in contemporanea operano sia la maggioranza che l’opposizione, l’una legittimando l’altra e viceversa. Era vecchio Virginio Rognoni, figura inutile e spreca risorse pubbliche, come una certa cultura antiumana, emersa durante il primo avvento del Covid, ha considerato gli anziani.

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Era vecchio, Rognomi e basta. Di lui ho già detto e scritto in queste ore della sua scomparsa. Oggi, giorno del suo funerale, vorrei dire qualcosa in più. Un pensiero che tocchi la sensibilità straordinaria di quest’uomo, sicuramente schivo e riservato, apparentemente distaccato, certamente rigoroso anche nello stile, ma profondamente sensibile e delicato. Soffrì molto per la tragica fine di Aldo Moro. Il dolore fu grande per la perdita dello statista di quella caratura, del Politico di quello spessore culturale, del filosofo della Libertà di quella possanza, del democristiano rigoroso nella sua laica applicazione dei principi cristiani nell’azione politica e di governo. E per l’Europeista dal robusto pensiero originale. Soffrì anche per la consapevolezza, tra i pochissimi ad averla avuta, che quella previsione drammatica di una rapida fine della DC, che Moro lanciò come un’anatema dalla prigione brigatista, si sarebbe presto avverata. Soffrì per la perdita di un sicuro punto di riferimento morale, ideale e politico. Perdita personale e collettiva. Per il Paese, maggiormente, come egli ben comprese. C’è un’altra sofferenza che crebbe man mano che la sua attività di Ministro dell’Interno, immediatamente succeduto al dimissionario Francesco Cossiga, si inoltrava nel drammatico caso Moro. Al di là delle “ incomplete” verità che si sarebbero scoperte con i quattro processi, egli toccò con mano, la prima verità. Una verità molto evidente per non essere detta, denunciata apertamente. Sofferta. Quella che registra l’incredibile “ distrazione della Stato nei confronti di una personalità tra le più esposte agli attentati di qualsiasi origine e provenienza, interna e internazionale. La verità di verificare che lo stesso Stato, che se l’è lasciato rapire con una facilità da ragazzi alla play station, non ha saputo rintracciarlo, in ben cinquantacinque giorni di “ ricerche”, nonostante l’impiego di tutte le task force e i servizi segreti del mondo. Quegli anni al Ministero, in cui egli operó con grande intelligenza ed efficacia, anche in direzione della lotta alla Mafia( sua con La Torre, è la famosa legge che ha sottratto ingenti patrimoni alla criminalità organizzata), il Ministro Rognoni comprese il rischio reale che stava vivendo la Democrazia italiana e, per conseguenze dirette, il complesso degli equilibri internazionali. Il suo animo democratico ne fu turbato.

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La sua sensibilità politica si tese più che tanto già non lo fosse. Virginio Rognoni è stato democratico fino al midollo. Fu attivamente antifascista, anche durante il regime per come potè esserlo un ragazzo pieno di idee e sentimenti. Fu questo sentimento per la Libertà che lo spinse subito alla politica attiva, proiettandolo nel dopoguerra all’impegno amministrativo quale consigliere comunale, prima, e vicesindaco dopo. E successivamente al Parlamento, fino alle più alte cariche istituzionali, compresa quella di Vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura. Carica che lui assolse con grande equilibrio e rispetto della indipendenza della Magistratura in rapporto, soprattutto, alla politica. Ispirato fortemente ai principi cristiani, la Libertà egli la concepì anche come forza vitale dell’essere umano e la Democrazia come il luogo in cui Libertà veniva riconosciuta e difesa. E organicamente lasciata Libera di esprimersi nell’organizzazione sociale, della quale lo Stato rappresentava la più alta forma di garanzia e tutela. Democristiano autentico, come si può ben capire. Moroteo profondo e tra i più coerenti, pur non appartenendo mai a quella corrente. Lo univa al Presidente il forte credo nella Costituzione. Un credo favorito dal comune studio della Grande Carta. Di essa, anche lui particolarmente apprezzava lo spirito di unità del Paese nella specificazione delle diversità in essa contenuto. Fu per questo, oltre che per seguire il pensiero moroteo, che Rognoni, lasciato il Parlamento e finita la stagione della Democrazia Cristiana, diede il suo forte contributo prima alla nascita del Partito Popolare, che Martinazzoli, suo primo rifondatore, abbandonò troppo frettolosamente e nelle incerte o interessate mani di quanti lo fecero ancor più frettolosamente morire. E poi a quello del Partito Democratico, alla cui nascita offrí il suo notevole apporto culturale per la messa su carta di idee insuperabili e di ideali immarcescibili. Solo questo e la simpatia personale. Forse anche il voto ripetutamente. Ma il suo unico partito fu e rimase( e con lui siamo stati in pochi) la Democrazia Cristiana.

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Piuttosto, è lecito pensare, che egli ritenne che, in qualche modo, la stretta e organica alleanza dei tre pensieri alti della tradizione democratica italiana, se ben rivisti e sotto certi aspetti corretti, potessero davvero portare alla costruzione di un Partito Democratico moderno ed europeo a tutto tondo. Un partito grande, progressista e ampiamente rappresentativo delle quasi totalità delle fasce sociali, che si potesse alternare alla guida del governo con un altrettanto grande, democratico e rappresentativo partito conservatore. Progetto risultato finora, purtroppo, fallimentare per mancanza di leader capaci e di una classe dirigente altrettanto capace di entrare nel cuore della vera questione: fare i conti, quelli giusti, però, con il passato, fare ammenda di errori comportamentali e ideologici, condannare ciò che ha ancora ha bisogno di essere condannato, realizzare una riforma elettorale che garantisse un’autentica selezione delle rappresentanze elettive, coerente con i principi irrinunciabili che esse siano determinate dalla libera volontà del popolo ritornato sovrano. Da qui, la costruzione di nuovi partiti che fossero veri in tutto. Liberi e democratici, con sedi fisiche nei territori, organi statutari espressi attraverso la pratica affermazione degli statuti, attenzionati costantemente dai propri organi di vigilanza, che ne garantissero la piena e trasparente aderenza alle decisioni degli iscritti veri. Partiti che fossero davvero democratici nell’unico modo in cui ciò è sempre stato possibile. E, cioè, partecipazione della base alle decisioni politiche attraverso assemblee e congressi e organi direttivi da questi eletti, assoluta esclusione di ogni forma di personalizzazione della politica e del partito, in particolare la denominazione degli stessi con il nome del presunto leader, in realtà capo e proprietario di tutto, strutture, persone, elettori e propagandisti compresi. Un partito vero, autenticamente democratico prevede, necessita e impone, una o più forze interne che si rivelino di opposizione. Il partito personale e personalizzato, molto spesso durevole quanto la stagione dei funghi, tutto può essere fioche democratico. La somma di partiti personalizzati, via via cambia la natura della Democrazia fino a farla diventare, senza bisogno di golpe alcuno e neppure di radicali modifiche della Costituzione, un’altra cosa. Oggi, per la modernità che ha cambiato anche il lessico oltre che la grammatica della Politica, indefinibile. Una cosa, se non ancora antidemocratica, di certo a-democratica. L’esatta situazione nella quale oggi si trova l’Italia, il Paese, non dimentichiamolo, del Risorgimento e della Resistenza, valori e fatti storici dai quali ha potuto trarre la forza per sconfiggere la destra eversiva e stragista degli settanta e la stupida sanguinaria follia delle Brigate Rosse e dell’estremismo rosso e anarchico-comunista.

Su questi saldi principi Virginio Rognomi continuò la sua fatica per la Democrazia. La sua difesa. La sua ricostruzione. Continuo la sua passione per la Libertà. Da tempo non avevo rapporti diretti con lui e da altrettanto tempo, confesso, non lo seguivo. Deluso da questa brutta politica, mi sono troppo chiuso, prima in Calabria e poi, per fortuna felicemente nonostante delusioni personali, nella mia amata Città, per cui non ho avuto occasioni di incontrarlo e tempo per studiarlo. Ma sono certo che in lui è rimasto quel sentire che con il mio, grazie alla stima che gli porto, è comune. Aspetterò di studiarlo ancora non appena, come mi auguro, un’Associazione o una Fondazione che ne porti il nome, avrà pubblicato in modo organico gli scritti, i discorsi, gli interventi, le lezioni e le pubbliche conversazioni di questi ultimi anni. Ce ne sarebbe tanto bisogno. Per tutti. Per i giovani, in particolare, che della politica conoscono solo ciò che il teatrino odierno rappresenta. La scimmiottatura, cioè, delle leadership, l’assenza di cultura, generale e delle istituzioni, l’egoismo sfrenato e la sete di potere coperta da una retorica a buon mercato, nella quale l’assenza assoluta di capacità di riflessione porta ciascun “ politico” a interpretare la necessità di sintesi nella comunicazione quale capacità di parlare per slogan e frasi fatte, spesse volte dalla grammatica assai incerta. Aveva novantotto anni questo politico illuminato. Vecchio? Non era vecchio, no.

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