IL DIBATTITO. Lettera a questa politica che inganna i giovani e ricatta i padri...

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Franco Cimino
  02 ottobre 2019 22:59

Lasciateli stare i nostri ragazzi! Sono poco più che bambini. Voi non li conoscete. State sempre chiusi nei vostri palazzi, da mattina a sera. E anche di notte, quando, liberati dalle lotte per il potere, vi trovate altrove. In altri posti che non siano le vostre casa. Andate a consumare le residue energie e quel che ancora resta dei privilegi acquisiti. Voi confondete i ragazzi di oggi con i vostri figli, che considerate maturi perché vi hanno sentito in televisione parlare di politica.

Loro hanno tutto in casa: una bella casa, una mamma che li protegge e li educa bene, la sicurezza materiale e il futuro assicurato tra buona università italiana e i master post laurea a Londra o negli States. Ma, con loro non c’avete parlato quasi mai nella continuità profonda del dialogo. Quello che ti fa scoprire i figli come sono e loro poter scoprire i padri nel loro vissuto interiore. Quelli che tra voi, chiusi nei palazzi, contano maggiormente, girate il mondo. Specialmente, quello evoluto, e pensate che i giovani “stranieri” che vi fanno incontrare nei palazzi di quelle parti , università o altro, siano uguali ai nostri. E a tutti i giovani di questo pazzo mondo. Ma, non è così. I nostri ragazzi sono poco più che bambini, perché ancora fragili e indifesi rispetto a una realtà che gli abbiamo inventato bella, quando in verità ogni giorno la facciamo più brutta. Noi, gli adulti delle ultime generazioni, siamo i figli dei sogni dei nostri padri venuti dalla guerra e dal dolore, nutrendosi di speranza e di amore. È il loro amore che ha sconfitto l’arroganza del potere nell’uomo fattosi dio in terra. Hanno sconfitto l’odio e il rancore e costruito ponti su cui abbiamo camminato per inseguire i sogni. E la vera libertà. Che abbiamo cercato, spinti da quegli ideali che univano i giovani di tutto il mondo, a prescindere dalle differenze ideologiche e di partito. La non violenza, il primo ideale. Il no alla guerra, il secondo ideale. E poi, l’eguaglianza, al cui principio si legava quella tra uomini e donne. E, in essa, quello della liberazione della donna. E per tutti i ragazzi, la liberazione da un potere-da quello del padre a quello dei governanti- troppo autoritario per una società democratica.

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Cambiare il concetto di autorità, era in qualche modo il motto di quella lotta liberatrice, la Pace il fine ultimo. Tutto questo era la politica, di noi ragazzi di allora. La facevamo tutti. In modi diversi, ogni giovane ne era coinvolto. Nei bar, nelle scuole delle prime occupazioni, nelle fabbriche occupate, nelle piazze delle manifestazioni, nelle tribune politiche della televisione. E nelle discussioni a tavola, quando lo scontro tra padri figli, oppure tra i figli stessi, quella tavola da calda diventava rovente. E c’erano anche i partiti a far da scuola di politica. A tradurre le tensioni ideali e le passioni individuali in scelta combattiva. In appartenenza a una ideologia o a un progetto di idealità organizzate. Si chiamava militanza, allora. I ragazzi facevano più politica, attraverso la militanza. Gli altri non stavano mica a guardare. I più indifferenti o distaccati, osservavano. Si facevano una opinione, che tramutavano in decisione quando sarebbero stati chiamati a votare. Prima a ventuno anni per la Camera e venticinque per il Senato, molto dopo a diciott’anni. E sempre a venticinque per l’Assemblea di palazzo Madama. I nostri padri ci hanno donato tutto. Il loro riscatto dalla fame e dalla povertà attraverso il benessere pieno per noi. Il rifiuto della guerra, proteggendoci addirittura falla fatica e dal dolore. La loro vita per il cambiamento, trasmettendo in noi la speranza del cambiamento. Loro, che hanno potuto sognare a metà, hanno consegnato a noi l’altra parte del sogno, affinché tutto intero lo realizzassimo noi. Ci siamo riusciti? Solo in parte. Qualcuno, non solo tra i testimoni del tempo ma anche tra gli studiosi e osservatori, afferma che la nostra generazione avrebbe perso e che per questo non abbiamo saputo educare i nostri figli. Trascinati dai nostri sensi di colpa e frainteso la generosità dei nostri padri, avremmo costruito una società in cui fosse nascosto il dolore ed evitato la fatica ai nostri ragazzi. Noi che, per ignoranza e presunzione, abbiamo respinto sdegnosamente la tecnica, avremmo-ci si accusa-fatto si che la tecnica si occupasse dei nostri figli, potendo essa evitargli la fatica e il dolore”.

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E' andata davvero così? Forse, sì. I nostri ragazzi, sono cresciuto in un tempo durissimo. Quello in cui, cadute le ideologie, le tante e le più diverse, ne domina una soltanto, prepotente e invisibile, la tecnologia e l’economia finanziaria, che la comanda. Un tempo durissimo, questo, nel quale ai nostri ragazzi è stata ridotta la capacità di dotarsi di un forte senso critico, a cui agganciare il convincimento che il mondo si può cambiare davvero. Con gli esseri umani che possiedono le leggi della macchina e questa sanno utilizzare per realizzare il bene comune. I ragazzi di oggi, sono bellissimi. Ma, negando loro la prospettiva di un lavoro sicuro e degno della loro competenza e preparazione, li abbiamo costretti a restare più a lungo in famiglia, allungando anche il tempo della creazione di una propria famiglia, in cui essere padri e madri, la responsabilità più grande. La responsabilità che li fa essere maturi e più belli anche quando non possono avere figli da accompagnare per mano lungo altri sentieri. I nostri ragazzi, hanno dieci volte l’intelligenza dei loro genitori, girano con facilità un mondo che gli adulti non vedranno neppure se vivessero due altre vite, parlano disinvoltamente tre lingue e comunicano, camminando per la via, a testa china sullo smart phone, in diretta, in video o per messaggio, con chiunque. I nostri ragazzi, possiedono in un palmo di mano tutta la conoscenza conoscibile e nello stesso istante in cui la cercano, senza neppure fare la fatica di aprire un pesante volume delle biblioteche. Con la rapidità del suono ricevono migliaia di notizie al secondo. E con la stessa rapidità, si inoltrano nella forza travolgente dei sensi e in quella del corpo che li libera unitamente a una sessualità sempre più anticipata nell’età.

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Ai nostri ragazzi abbiamo gettato in faccia, per liberarci dai nostri sensi colpa di non aver saputo costruire la felicità promessa, l’illusione di poter conoscere tutto, di andare ovunque, di poter possedere la tecnica con cui si può prendere ogni cosa desiderata. È così? Hanno tutto i nostri ragazzi? Non è così evidentemente. Ai nostri ragazzi abbiamo fatto mancare il tempo. Il tempo per se stessi. Il tempo nostro e di noi con loro. Il tempo lento, e la lentezza in esso. Quella della filosofia, per decrittare i diversi linguaggi non parlati e i simboli che su di essi appaiono, le icone insomma della modernità. La filosofia per andare oltre la superficie delle cose, alla ricerca del senso delle stesse. Del senso delle parole e delle immagini, che si affastellano davanti a loro, impedendogli, come per le notizie, di selezionarle, analizzarle, prenderne coscienza dopo aver separato il falso dal vero. E il falso e il vero, saranno, limitatamente agli assoluti impossibili da raggiungere, ciò che risulteranno tali alla loro ragione liberata. Abbiamo negato il tempo delle scelte. E il tempo lento dei sentimenti. E del legame che sempre questi devono avere con la ricerca del piacere e l’igiene della mente, il legame tra volontà e sogno. Tra angoscia da repressione e gioia da liberazione. Il tempo lento, per vedere il cielo e sostare lungamente in un prato e davanti al mare. Il tempo lentissimo della spiritualità profonda, il cui approdo sia la fede in un Dio o la fiducia nella forza interiore, che si chiami anima o sentirsi frammento nell’infinito. Per donare e per negare, ma soprattutto per trattenerli, e legittimamente, in famiglia, ché non possono andare e non vogliamo che vadano, abbiamo rafforzato il loro ruolo di figli. Conseguentemente, abbiamo prolungato quella breve età che segna il primo più rivoluzionario passaggio esistenziale.

Gli scienziati della psiche, da meno di cento anni, la chiamano adolescenza. Solo vent’anni fa, essa ancora si racchiudeva nell’arco che va dai quattordici anni ai diciotto. Adesso, l’adolescenza, se pure potremo scientificamente delimitarla, viaggio, e più intensamente, lungo i dodici- diciannove anni. È in questa fase che nei nostri ragazzi si muove un dolore nuovo che le famiglie non riescono a intercettare, la scuola a capire e gli specialisti, tante volte, a risolvere. Continuare a sottovalutare, peggio a non coglierlo, questo dolore, sarà il pericolo più grande che attraverserà la nostra società. Sarà la nostra colpa più grave. Pensiamo ai nostri ragazzi come sono. Finiamola di strumentalizzarli ancora a fini politici e peggio elettoralistici. Non inganniamoli nuovamente con un colpo di teatro consumato su quel palcoscenico istituzionale bombardato da parte di una politica che la sua profonda crisi non vuol superare e i suoi quadri dirigenti non vuol rinnovare. Rinnovare realmente, non attraverso l’anagrafe, come stanno facendo oggi i capi di partiti inesistenti, che, per avere un Parlamento che non pensi e non decida autonomamente, gettano nella mischia giovanissimi che nulla conoscono della politica e dei problemi del Paese. Lasciateli stare, quindi, i nostri ragazzi! Fateli crescere bene, sono poco più che bambini. Date loro una Scuola buona, una Università attrezzata e libera, dei bravi docenti, aiutate le famiglie nel loro compito educativo, conservate il posto di lavoro ai padri e alle madri e create nuovo lavoro, con una nuova qualità umana, per i giovani che usciranno preparati dai vari percorsi formativi. Ricostruite le città in cui essi vivono, non riempite il territorio di brutture e quelle che ci sono distruggetele. Rendete sicuri, pieni di luce buona, i posti che frequentano. Sosteneteli nella loro spontanea ricerca della Bellezza. Ma, soprattutto, incoraggiateli a fare politica, non per ambizione e mestiere, come la fate voi, ma per servire la gente. E la loro ansia di giustizia, di eguaglianza e di pace. Fare Politica intellettualità fine e moralità. Con studio assiduo. E dialogo continuo con tutte le persone, non solo con quelle a cui si chiede, come fate voi, il voto. Fate vedere ai ragazzi che la Politica è bella, non perché verranno loro, ché poi i migliori di loro dovranno venire. Ma è bella perché ci siete già voi. E bella, loro la troveranno, nelle strade e nelle istituzioni, perché così gliela consegnerete. Come dovremmo gli adulti fare verso il pianeta e ciò che chiamiamo ambiente.

Non caricate i nostri ragazzi di una responsabilità che è innanzitutto nostra. È, di più, vostra. Salvare questo mondo spetta ancora a noi. E a voi, che dietro i giovani vi nascondete.

Franco Cimino

 

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