di TERESA MENGANI
C’è qualcosa di tragicamente ciclico nella storia politica calabrese. Un copione che si ripete, sempre uguale, con attori diversi ma con la stessa trama stanca e prevedibile: promesse vuote, scandali che non indignano più, consenso comprato a colpi di clientele e, come sempre, un popolo che dimentica.
Le urne hanno parlato, sì, ma non hanno detto nulla di nuovo. Ancora una volta la Calabria ha scelto di farsi del male; nonostante le inchieste, gli avvisi di garanzia, le ombre di corruzione, le connivenze con interessi oscuri che da decenni strangolano la regione, l’elettorato ha preferito voltarsi dall’altra parte. È un riflesso pavloviano, un’abitudine più che una scelta: la rassegnazione elevata a metodo politico.
Questa non è più democrazia, è un rito stanco. È la fede cieca di un popolo che ha smarrito la memoria e si affida, come sempre, agli stessi padroni. Si vota per abitudine, non per convinzione. Per paura di perdere quel poco che resta, non per desiderio di cambiare. E intanto la Calabria sprofonda: ultima regione d’Europa, culla di una bellezza sprecata, laboratorio del fallimento civile.
È inutile girarci intorno: la Calabria resta l’ultima regione d’Europa per occupazione, servizi, istruzione, sanità. Eppure, nel buio della sua marginalità, trova sempre la forza di confermare i suoi carnefici. Si potrebbe parlare di masochismo collettivo, di una sorta di sindrome da prigioniero affezionato alla propria cella. Ma sarebbe troppo comodo ridurre tutto a una patologia: la verità è che qui, da troppo tempo, il voto non è più un atto di libertà, ma di sopravvivenza. Lì dove la storia avrebbe dovuto generare ribellione, è cresciuta la rassegnazione. E dove la povertà avrebbe dovuto generare solidarietà, è nata la complicità. È una logica sottile, non gridata. fatta di indifferenza, di piccoli favori, di patti non scritti che tengono insieme l’immobilismo e il disincanto.
Gli stessi poteri che dovrebbero essere cacciati vengono puntualmente premiati, in una liturgia elettorale che ha il sapore della rassegnazione, ed anche in questa ennesima tornata elettorale, ha vinto ancora la paura: paura di cambiare, paura di perdere il poco che resta, paura di guardarsi allo specchio. E allora no, non ci sono auguri da fare. Non oggi, non così.
La Calabria di oggi, con il suo voto corto e la sua memoria più corta ancora, non merita indulgenza. È la fine della coscienza civile, non per stanchezza, ma per assuefazione. La Calabria vota contro se stessa Si può solo sperare che, un giorno, qualcuno rompa il cerchio. Che un ragazzo, una donna, un operaio, un insegnante si rifiutino di dimenticare ancora. Fino ad allora resteremo così: belli e perduti, fermi nel buio, ad applaudire chi ci ruba la luce.
A chi si ostina a credere che “le cose cambieranno”, viene da rispondere che cambieranno solo quando smetteremo di votare con la pancia piena di illusioni e la memoria vuota di verità. Fino ad allora, resteremo qui, ultimi in tutto… tranne che nell’arte di dimenticare.
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