Franco Cimino e il suo breve "trattato" su politica, reati e questione morale in Calabria...

Share on Facebook
Share on Twitter
Share on whatsapp
images Franco Cimino e il suo breve "trattato" su politica, reati e questione morale in Calabria...
Franco Cimino
  26 febbraio 2020 17:23

di FRANCO CIMINO

“Io so chi sono i colpevoli, ma non ho le prove.” Lo diceva Pier Paolo Pasolini in uno dei suoi più noti articoli pubblicato sul Corriere della Sera quando, in tempi assai lontani da questi, egli aveva percepito che la questione morale, da lui intellettualmente intuita, avrebbe rappresentato il male peggiore, insieme alle ingiustizie e alle incomprensioni tra generazioni, per la democrazia. Da quella mia lettura che ero ancora un ragazzo con i calzoncini corti, guardando nella politica, che già intensamente vivevo, ho preso a leggere i fatti attraverso il mio sguardo su di essi, senza cercare le prove per quelli che procuravano inquietudine e disgusto, paura e senso dell’abbandono. Mi sono, cioè, formato una coscienza critica con la quale progressivamente mi rendevo autonomo rispetto ai cliché e alle culture dominanti. Anche nei confronti, per esempio, di quel vecchio dettato secondo il quale debba sempre essere giudicato ciò che si vede e condannato solo quel comportamento individuale accertato in sede giudiziaria. In buona sostanza, i fatti dimostrabili documentalmente.

Banner

Insomma, delitto con prove. Il peccato, pardon la colpa, c’è se è dimostrabile da chi ha il potere di rendere la dimostrazione vera, quindi la Giustizia, i giudici, i tribunali. Questo dettato, che normalmente, e giustamente direi, muove dalla Costituzione, viene da sempre( tranne che nel vulcanico tempo di “ mani pulite”) applicato alla politica. La quale, però, particolarmente negli untimi vent’anni, non riuscendo a cambiare pienamente alcune leggi contro la corruzione e il degrado dell’etica politica, dietro il primato della Giustizia nasconde il peggio della sua classe dirigente, consentendo per decenni a politici corrotti di inquinare le istituzioni e di avvelenare i pozzi della democrazia. Non si dice ancora oggi-assai di più oggi- che, fino a quando il terzo grado di giudizio non lo abbia condannato, quel politico debba essere considerato innocente e lasciato libero di svolgere le funzioni cui è stato delegato dagli elettori? Non si dice ancora oggi, dopo quella prima dura affermazione di vent’anni circa or sono, che il popolo è sovrano oltre ogni limite imposto dalla Carta Fondamentale, come a voler dire che gli unici giudici che possono giudicare i politici sono gli elettori? Non viene da qui la teorica equazione eletto uguale a innocente? E non sono state, sempre più convintamente nel tempo, tutte le forze politiche, con i loro strumenti comunicativi di riferimento, a far passare questo assioma cui anche la gente si è adattata? E non è questa regola che i poteri cosiddetti forti, specialmente quelli nascosti, hanno fatto passare nella cultura imposta per potersi meglio servire di una classe politica debole e ricattabile?

Banner

L’affermazione di una legge non scritta accanto a quella formale, attraverso la quale sovvertire lo spirito stesso della nostra Costituzione, che pone a fondamento dell’agire politico la dignità e l’onore, il primato delle istituzioni sulle convenienze personali, quello del bene comune sugli interessi di parte, il servizio al Paese rispetto a quello verso poteri altri e non leciti, rappresenta la vera questione morale, che, lungamente irrisolta, si è trasformata in questione democratica. Una questione tanto grave, da consentire che questa stessa classe politica debole e i poteri che la comandano potessero, in questo ultimo quarto di secolo, modificare il nucleo del nostro sistema democratico, invertendo il corso del suo essere autenticamente democrazia partecipata. Le conseguenze si osservano nella partecipazione al voto sempre più ridotta. I cittadini che non si sono accorti di questo negativo cambiamento, vanno a votare senza ampia consapevolezza. Quelli che ne hanno avvertito un qualche o pieno sentore, non vanno ai seggi. Questa dicotomia torna tutta a vantaggio di coloro i quali sfruttano tale nuovo contesto per imporre (taluni imponendosi) una moltitudine di candidati nelle liste che ad esse recano, nel trasformismo più becero, soltanto la quantità di voti che sul terreno del pessimo clientelismo e su quello dell’affarismo e dello scambio mafioso, costoro apertamente accumulano.

Banner

La “cultura” della scambio in politica non nasce unicamente durante il voto. Ha processi diversi e tutti riconducibili a quella cultura mafiosa che va oltre la illegalità accertata, oltre gli studi sociologici, oltre il rapporto stesso tra candidati e criminali. Il primo scambio avviene tra l’aspirante candidato e un riferimento sociale diciamo autorevole, una sorta di notabile paesano, di quelli che ancora se ne vedono numerosi. Realizzato il rapporto, si inizia a cercare benevolenze e consensi in ambienti ristretti costruiti sulla solidarietà sociale, professionale, associativa e d’altro genere. Qui si arriva con un certo credito, in maniera che si offra la possibilità di un successo elettorale quasi sicuro “ se mi aiuterete voi”. Ottenuto il placet, si gira per più di un anno a cercare voti tra le famiglie e i calabresi comuni, quelli candidi e innocenti per dirla in figure standard. A questi si portano le “ prove” che “lui” vincerà di certo, salirà al Parlamento, al Consiglio Comunale e Regionale, e in qualità di loro amico sarà pronto a soddisfare tutti i bisogni, che già inserisce in un bel quadernino ben visibile. Il tutto senza aver dichiarato il partito nelle cui liste si candiderà. Nel voto di scambio, non è interesse dell’elettore saperlo, gli serve solo la soddisfazione del favore che ha chiesto. Non è interesse del candidato, che guarda solo allo spazio che gli potrà consentire di essere eletto.

Da qui il facile passaggio da un partito all’altro, da uno schieramento a quello opposto, senza decenza o provare un minimo di vergogna, tanto non si scandalizza nessuno. Addirittura, nei commenti di strada, come dei salotti, il trasformista passerà per uomo intelligente che va diritto dove non sprecherà neppure un grammo della propria energia e della propria ambizione. Infine, lo scambio elettorale più noto perché inserito nel codice penale come un reato non proprio leggero. Esso, in alcune realtà territoriali per nulla ristrette, è un passaggio obbligato. Per due motivi almeno. Il primo, senza i voti della’ndrangheta non si risulta, anche perché se non li prendi tu, li prenderà il tuo più diretto antagonista. Il secondo, la ‘ndrangheta riveste ancora in certi luoghi, paradossalmente, il ruolo di autorità che legittima e trasforma la mediocrità accertata di quel tale consigliere o parlamentare in personalità forte, rispettabile e rispettata. Che, tra l’altro, da quei signori viene tenuta al riparo dalla mancata ottemperanza alle promesse clientelari.

Torno a me stesso un attimo e a quel mio Pasolini, senza neppure richiamare la mia educazione ai principi costituzionali e ai valori evangelici, per dire che da sempre ho imparato a riconoscere in politica chi la fa per se stesso, chi per conto di altri( quelli nascosti negli scantinati della brutta economia e dei più brutti poteri segreti). Chi la fa per servire alti ideali dentro le più grandi idealità delle forze politiche che li rappresentano, e chi la fa per servire padroni e padrini. Chi la fa per cambiare la vita della povera gente e chi il proprio portafoglio e la propria posizione economica e sociale. Chi la fa per far progredire la grande famiglia calabrese e chi per asservirsi a una famiglia, o anche alla propria quando essa è notoriamente attigua a quelle malavitose. Tutto questo mi è riuscito, pagando, com’è noto a molti, prezzi personali altissimi, di cui mai mi sono addolorato o pentito, non solo per la mia coscienza libera, e non solo perché mi porto a guardare dentro alle cose e nel profondo della realtà, anche individualmente umana. Mi è riuscito, perché questa brutta politica(che naturalmente e per fortuna non riguarda tutti e neppure la maggioranza degli addetti) è visibile a tutti. Chi si scandalizza ad ogni clamorosa operazione della magistratura , specialmente quella inquirente, reca con sé una colpa sociale non facilmente emendabile. La Calabria è una regione piccola, il suo tessuto urbano e costituito da poco più di mille comunità ancora più piccole, nelle quali tutti sanno tutto di tutti e di ciascuno. Si conoscono amicizie e gli intrecci diversi che prendono le diverse compagnie e le diverse frequentazioni. Si conoscono i caratteri e le sfrenate ambizioni di chiunque ci vive accanto o a contatto di qualsiasi pur lontana relazione. Soprattutto, si nota immediatamente il cambio di passo che quel compaesano compie unitamente al livello di benessere economico inopinatamente raggiunto.

In chi si affaccia alla politica, questo cambiamento si accerta più rapidamente. E, allora, perché vince sempre questa “ maggioranza trasversale”, perché da noi “ sagghjunu sempra chidhi e drhà supra sù sempra i stessi?” Se vogliamo essere degni di un’altra indignazione, se, soprattutto, desideriamo davvero il cambiamento della nostra terra, dobbiamo partire da questa situazione reale. Riflettere su un grande problema, connaturato alla politica calabrese e che di essa ne fa il suo limite massimo. Ed è che in Calabria, regione tra le più povere d’Europa in quanto tra le più arretrate in ogni ambito, la politica è tutto. È il luogo di tutte le decisioni che riguardano la vita di ogni calabrese. Il luogo dove passano più dell’ottanta per cento delle risorse utilizzabili per lo sviluppo complessivo. In particolare, per dare lavoro.

Paradossalmente, anche agli imprenditori, cioè a coloro i quali il lavoro lo devono creare insieme alla ricchezza produttiva per costruire sempre nuova economia. Tutto, qui da noi, passa dalla politica, anche le carriere di quanti ricopriranno ruoli al vertice di istituzioni o di realtà indipendenti dalla politica. La politica, quindi, come potere unico e determinante, è diventata risorsa passiva e inquinante di tutto ciò che, non competendole, va a maneggiare. Caso, tra i pochi al mondo, in cui essa, politica, corrompe se stessa prima che altri dall’esterno la corrompano. Sta qui il male della Calabria. Riflettere su questo, è il primo atto che, con coraggio, chi si accinge a vario titolo a guidare la Calabria deve fare. È atto politico e morale insieme, perciò democratico. Il più alto che si possa concepire in questo momento. Chi nuovamente eviterà di compierlo trincerandosi dietro mille stupide scuse, deve sapere che, atti giudiziari o no, scandali o no, egli è complice di ogni misfatto o crimine perpetrato dentro e fuori le istituzioni.

Adesso è proprio il momento di dire basta! Lasciare che il popolo calabrese si attacchi ai media e ai social per vedere cosa faranno i “ giudici eroi” per ripulire questa nostra terra, è come far credere che il mare inquinato si ripulisca con un catino. Il vecchio sistema “ corruttivo”ha in se stesso le sue difese e ben calcola che su dieci provvedimenti delle procure, cento fatti analoghi resteranno, con la nostra complicità, ben nascosti ed operativi sulla ancora più vecchia scala di disvalori. Occorre cambiare dal profondo la Politica, i partiti e quasi tutta la loro classe dirigente. Un movimento popolare autentico, che dal basso chiami la gente buona di Calabria a un nuovo corale impegno politico, evitando anche di farsi strumentalizzare per le carriere facili dei falsi nuovisti, e nel quale la Chiesa e il mondo della cultura siano in prima fila, è ciò che oggi occorre. Niente altro. La nuova presidente della Regione faccia una sua iniziale piccola parte: completi subito la giunta con uomini e donne di sua stretta fiducia in assoluta discontinuità con il passato. Uomini e donne, che nulla abbiano avuto a che fare con questa miseria della politica e con quei gruppi di potere, interni ed esterni ai vecchi partiti, che questa drammatica situazione hanno contribuito a produrre.

Per il resto, io non leggo le carte delle Procure, non so leggerle e non le capirei. Faccio un altro mestiere che non quello dell’inquirente. La Magistratura e la Politica, non sono due autonomie a tempo ed occasionali. Ciascuna deve vivere del compito che la Costituzione le ha assegnato, come forza aggiuntiva della Democrazia.

 

 

Banner
Banner
Banner
Banner
Banner
Banner
Banner
Banner
Banner
Banner
Banner
Banner
Banner