La Regione, come Istituzione e come Calabria. E me nella passione per l'una e l'amore per l'altra

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Franco Cimino
  13 luglio 2020 19:07

 C’ero anch’io in quel caldo 13 luglio di cinquant’anni fa (oddio quanto tempo mi è passato addosso senza accorgermene!) alla Provincia, alla riunione dello storico insediamento del primo Consiglio ragionale della Calabria. Nell’unica foto che in questi giorni sta circolando in rete, che ritrae il pubblico nella sala del Consiglio, nell’emiciclo riservato al pubblico, e sul loggione che la copriva a metà, c’ero anch’io, anche se non mi si vede in quell’istante dello scatto.

Foto successive mi mostrerebbero chiaramente, sul loggione, dopo essermi fatto largo con il mio fisico esile e guizzante tra corpi robusti e sudati che quasi lo facevano franare di sotto. Preso il posto, schiacciato su quella specie di davanzale in metallo, ancora esistente, restai lì per l’intera giornata. Ci andai con lo stesso abito elegante con cui trentacinque giorni prima mi recai a votare presso il mio seggio di Marina, scuole elementari di Murano. Ero pieno dell’emozione del mio primo voto e dei sogni che lo corroborarono insieme all’impegno che assunsi la mattina del sette giugno e che non ho mai tradito: andare sempre a votare e segnare con scelta consapevole la scheda, mai rinunciando ad esprimere la preferenza e sempre evitando la tentazione di annullarla o di lasciarla bianca.

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Quel giorno ho giurato sulle lotte che i giovani del Cile, dell’Argentina e di gran parte del Sudamerica, e quelli di Portogallo, Grecia e Spagna, schiacciati dai regimi fascisti, stavano facendo a rischio di torture e prigionia e della stessa vita, per ottenere almeno solo il diritto al voto. Il mio primo voto l’ho dedicato, in particolare, a Jan Palach, che nella piazza principale di Praga si diede fuoco per protestare contro la dittatura comunista e l’invasione dell’esercito sovietico, che cercava duramente di cancellare con i carri armati le lotte che il movimento dei giovani da settimane stava conducendo nel nome della Libertà. Jan, rappresentava tutti noi. Anche i giovani di questa parte del mondo. Quello occidentale e democratico, dove la Democrazia non sarebbe stata una conquista né definitiva né compiuta, come le battaglie fatte in seguito dimostrarono.

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Jan aveva solo ventuno anni, io non ancora diciassette quel dicembre di un anno prima. Quel tredici luglio, in quell’angolo stretto e infuocato di quell’affaccio angusto sulla sala provvisoria del primo Consiglio Regionale, feci il volo più importante della mia vita Politica. Cioè, di gran parte della mia intera vita, dedicata quasi interamente all’Amore spartito. Mai frantumato, ma spartito, sì, tra l’amore per la mia terra, il bene per gli altri, il partito del mio cuore( unico come unico è il cuore) e l’amore per la mia famiglia, da quella originaria a quella che, con il più grande dono ricevuto da Dio, ho contribuito a formare.

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Ho iniziato a farla, la Politica, che non avevo ancora quattordici anni. Dalla parrocchia, e la veste di chierichetto, all’Azione Cattolica, con le prime lezioni sull’impegno sociale da assolvere con alta tensione morale, non ci fu neppure un passo. Quello che mi portò nella sezione della Democrazia Cristiana, che si trovava proprio difronte, a venti metri, nella sede che fu la mia seconda abitazione fino a dodici anni, il passo fu ancora più breve. E poi via, a tuffarsi nella lettura degli scritti di don Luigi Sturzo di Caltagirone, in Sicilia, e di Alcide De Gasperi di Pieve Tesino, nel Trentino, e nell’ascolto dei più affascinanti politici e statisti di quel glorioso partito, oltre alle teorie e alle posizioni politiche altrui.

Due sono le cose che ho fatto subito mie come se nascessero dal mio pensiero, per le quali mi sono sempre battuto, come fossero il pane per le mie figlie o il domani dei miei ragazzi, gli studenti che ho amato. La prima è che la Democrazia è il luogo in cui la libertà prende forma e si organizza, mentre, attraverso le istituzioni, dall’Io personale passa al Noi, senza che il primo perda un grammo della sua forza. La seconda, non esiste vera Democrazia senza partecipazione dal basso, cioè senza la continua presenza dei cittadini, anche singolarmente intesi, e le organizzazioni libere in cui essi si riconoscono.

Bello vero? Ma non basta. Inoltrandomi in questo principio, scoprii il valore più importante: Democrazia è più delle tante affermazioni che dalla rivoluzione francese e “americana” sono venute costituendosi in quasi duecentocinquanta anni di storia. È il pluralismo delle istituzioni. Ma anche questo non è bastato. Da Sturzo e De Gasperi, l’altro comune insegnamento: il valore dell’autonomia dei territori. Insegnamento fermo dei due grandi leader, sebbene qualche analista politico e qualche politico ancora in vita, sostengano che vi sia una sorta di divisione netta tra il popolarismo del prete siciliano e l’idea di democrazia degasperiana fondata proprio sul concetto di autonomia. Da questa differenza, per me assolutamente infondata, sarebbe nata quella resistenza alla istituzione effettiva delle regioni, avvenuta ben ventidue anni dopo la nascita della Costituzione più bella del mondo. Pluralismo delle istituzioni e autonomie dei territori, autorità del potere centrale e articolazione dello Stato, al pari della divisione dei tre poteri, costituiscono la forza della nostra Democrazia, il principio della sua originalità, lo spirito vivente della libertà di cui è permeata la vita di un grande Paese. Quell’Italia, che da subito ha guardato all’Europa quale strumento fondamentale per realizzare la giustizia, la Pace nel mondo, attraverso il riconoscimento della dignità di tutti i popoli e del loro diritto a vivere l’autonomia del territorio a cui appartengono per cultura e storia, per antropologia ed etnografia. Fu poi Moro a incarnare, vigilando sulla piena coerenza del proprio partito, questa idea, alla quale egli diede un grande contributo in sede di stesura della Costituzione durante l’anno più benedetto, quel millenovecentoquarantasette che ci aprì le porte del Paradiso da costruire in terra, in Italia. E in Calabria, la terra che più di tutti aveva bisogno di democrazia e di partecipazione e che più di tutte le altre realtà territoriali si sarebbe potuta giovare della Regione, per fare da subito le tre più urgenti e necessarie cose. Tutte insieme nello stesso tempo e senza soluzione di continuità.

Eccole, sono queste: uno sviluppo economico davvero originale, concentrato sulle straordinarie risorse del territorio, a partire dall’ambiente naturale, dalla cultura e dalla sua trazione artistico-artigianale; la costruzione di una classe dirigente intelligente, studiosa ed operosa, indipendente da ogni potere e forza condizionante, moralmente sana e generosa oltre ogni tentazione di perseguire interessi personali; lotta senza fine se non alla fine fisica del “ nemico”, contro la ‘ndrangheta e la massoneria inquinata, che è stata gran parte di quella originaria. A questi si sarebbe aggiunto l’obiettivo più ambizioso, che avrebbe rappresentato un primo punto d’arrivo per una nuova ripartenza. Da quel punto verso il Paese e l’Europa, di cui, con la Sicilia, avremmo potuto rappresentare la porta del Mediterraneo, su quel mare bello e generoso che avrebbe rappresentato la più grande nuotata, a bracciate larghe ed eleganti, di popoli diversi, il nostro con il loro, verso la nuova Civiltà.

Per me quel tredici luglio era l’incessante pulsione di tutti questi principi dentro un cuore che faceva fatica a contenere le mille idealità che danzavano festose nella mente. Non ricordo bene se, stipato in quell’angolo, mentre ascoltavo gli interventi di gente del calibro di Mario Casalinuovo, che settimane dopo divenne il primo presidente del Consiglio Regionale, di Antonio Guarisci, che fu il primo presidente della Giunta(scomparso, purtroppo, in un tragico incidente stradale, il due ottobre del millenovecentosettanquattro, mentre si recava a Roma), Consalvo Aragona, Vincenzo Cassadonte, Rosario Chiriano, Angelo Donato, Aldo Ferrara, Costantino Fittante, Tommaso Iuliano, Lodovico Ligato, Giuseppe Marini, Pasquale Perugini, Tommaso Rossi, Sergio Scarpino, Vincenzo Peltrone, Francesco Martorelli, e altri che non trattengo nella mente, ripeto non ricordo bene se ho pianto. Di sicuro ho continuato a sognare. Un sogno che ancora dura e non mi stanca con le fatiche di coltivarlo e non mi si rompe con le tante delusioni e le sconfitte registrate su di esso.

Confesso che sognavo anche di me. Ovvero, che sognavo me nel sogno, mischiando passione e amore, idealità e ambizione, Franco e la sua voglia di essere protagonista con la Calabria che avrei voluto sana e bella. Sognavo di scendere io stesso un giorno in quella sala o in un’altra, di un altro luogo o di un’altra istituzione, a “menar le mani”, a sfoderar la spada, a mettere il mio petto contro le pallottole e vincere. E vivere o perire al grido di Viva la Calabria liberata e la Democrazia che ha acceso il cuore dei calabresi che l’hanno liberata.

Cinquant’anni dopo, una cerimonia semplice e generosa, partorita dall’animo di nobili catanzaresi e da alcune associazioni, ricorda quel tredici luglio che vide i primi passi della Regione. Non c’è la solennità che questa data avrebbe meritato da parte dell’attuale Consiglio regionale, che, invece, alla stessa ora di domani si è convocato per trattare argomenti assai lontani da quel grande avvenimento.

Quella di oggi è la Regione della sconfitta e della rassegnazione. Una sconfitta duplice, derivante dal mancato successo delle idealità costituzionali che hanno dato vita al regionalismo e dai gravi errori, storture, illecite trasversalità tra poteri e tra potere legale e poteri sotterranei, consumatisi, nella progressiva stanchezza e rassegnazione dei calabresi, in questo tempo infinito che non si decide a interrompersi. Le cause sono molte anche se una storia completa, la più oggettiva e neutrale possibile, non è stata ancora scritta. Davanti a noi e a un’Italia che ancora la rifiuta e che di essa non vuole più le braccia e le intelligenze che ha preso abbondantemente in passato( nell’ampia zona Nord dell’Europa si cerca la migliore convenienza del nuovo mercato del lavoro della crescente disoccupazione e dell’immigrazione), c’è una Calabria rotta, divisa e litigiosa. Povera di idee e di classi dirigenti, continuamente aggredita dalla corruzione sistemica e dalle mafie diverse e più aggressive, di cui la ‘ndrangheta rappresenta la punta dell’iceberg o l’alibi per nuove impunità. Ovvero, la copertura di altri e più alti livelli di quella “malassociazione” , che raccoglie tutto il peggio che da tempo si muove nella nostra terra rubando risorse pubbliche e ricchezze naturali, impoverendo vieppiù la gente e arricchendo vertiginosamente quei sempre più ristretti gruppi di potere, che usano gran parte del denaro per creare nuove economie corrotte e comprare o semplicemente corrompere pezzi di partito e di classe politica.

Perché siamo a questo punto che sembra di non ritorno? Tanti sono i motivi, che nella loro buona percentuale rimandano a quei giorni di luglio in cui da quel cinque, data del “ rapporto alla Città” dell’allora sindaco di Reggio Calabria, Piero Battaglia, al più famoso quattordici, in cui iniziarono le prime aggressive manifestazioni, poi tramutatesi in quel che le cronache di quel tempo chiamarono “ rivolta” e “ moti” di Reggio, che potremmo addurre a prova del triste cammino della nostra regione. Ma qui non lo faccio. E non solo perché su queste colonne Stefania Valente, l’avvocato impegnato fortemente nel sociale, ne ha ben trattati, e con dovizia di analisi, alcuni tra i più importanti, ma anche perché l’emozione mi ha prepotentemente catapultato nel mio privato della Politica, facendo della mia memoria un oceano in “ rivolta” e dei miei sentimenti un vulcano in eruzione. Più avanti, tuttavia, ci vorrò tornare con una attenzione maggiore e uno sguardo più approfondito sui fatti, per tentare di dare risposte alle domande che ancora non ci siamo posti. 

Franco Cimino

 

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