La riflessione/ Maurizio Alfano: "Dal sogno in un cassetto, a morire dentro un cassonetto"

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Maurizio Alfano
  23 maggio 2020 19:18

di MAURIZIO ALFANO

Ecco, potremmo riassumerla tutta qui la vita del piccolo Karim morto in un cassonetto. E qui potrei davvero chiudere l’articolo, ovvero cos’altro aggiungere a quella che credo sia la migliore rappresentazione plastica, evidente, carnale, di un’indifferenza che ci domina e divora. Quello che ci domina è la società del consumo e per questo abbiamo bisogno di cassonetti per quello che avanziamo e sprechiamo. Quella che ci divora invece, è l’indifferenza alle altrui condizioni per dare sfogo alle nostre ambizioni e per questo abbiamo bisogno di un cassetto dove stipare mucchi di sogni spesso macchiati dall’ingordigia del nostro tempo.

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Potrebbe bastare anche questo per descrivere la deriva delle relazioni sociali dentro la quale è maturata la morte del piccolo Karim, cos’altro aggiungere alla fotografia appena scattata del nostro Paese che ama ritoccarsi per dare altra immagine di se. Potrei aggiungere della nostra indifferenza alle vite da scarto che abbiamo relegato fuori dai nostri confini mentali, ovvero le condizioni in cui ancora oggi vivono migliaia e migliaia di bambini, non in Africa, non in Asia, ma in Italia.

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Il campo dei Rom, degli zingari, è per esempio uno spazio privo di spazi — un luogo in assenza di luoghi altri, un contesto, seppur ben preciso — fuori da ogni contesto meglio definibile. Una parentesi tonda, chiusa in una quadra molto più grande che ne delimita confini e storie di confini, limiti e storie di limitazioni, margini e marginalizzazioni—attesa l’impossibilità concreta di poter (ri)creare seppur in maniera residuale le normali condizioni pratiche, che alla vita di ognuno di noi quotidianamente invece necessitano.

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Eppure di questi campi, ovvero di quartieri esclusi da processi di sviluppo ed inclusione sociale il nostro Paese è pieno a Roma, come a Milano, a Napoli come a Lamezia, a Torino come a Cosenza. Ed ognuno di questi luoghi è abitato, popolato, animato da bambini e bambine che come Karim, spesso versano in condizioni di privazioni alla quale abbiamo abituato il nostro sguardo indifferente. Al contrario la loro vita è tutt’altro che indifferente poiché rapiti alla loro infanzia quasi sempre si chiede di divenire essi stessi un mezzo per sostenere l’economia familiare che in molti casi passa dai loro sogni chiusi in un cassetto ideale, poiché non hanno nemmeno quello, al venire in urto e contatto con i cassonetti da esaminare in cerca di cose da riciclare ed in alcuni casi da mangiare. La morte di Karim, dunque testimonia la condizione di marginalità nella quale versano non solo migliaia di bambini stranieri, ma con essi migliaia e migliaia di bambini italiani, seppur questa separazione giuridica di cittadinanza mi faccia incazzare nel mentre la scrivo.

Potrebbe bastare anche questo, la rappresentazione scenografica delle nostre città sempre più asfittiche, prive di sentimenti, di emozioni da offrire, poiché essere città d’arte, non sempre corrisponde ad essere città accogliente, cosmopolita. Servono i luoghi di cerniera sociale sempre più necessari nel mettere in contatto tra loro e giammai in urto popolazioni di posti e luoghi differenti, di religioni diverse, di condizioni di classe opposte. Ecco, cosa insegna la morte di Karim, il riaffermarsi al contrario della demagogia dello scontro, della superiorità della razza e del potere d’acquisto. Tutto questo poi, produce fenomeni di rarefazione urbana e disintegrazione dei rapporti sociali all’interno di un contenitore più ampio che è quello della sofferenza urbana sul quale si riflettono problematiche nuove, legate alle migrazioni o alla globalizzazione, oltre alla trasformazione del tessuto urbano. La città pone dei problemi rispetto a delle popolazioni sofferenti per malattia, per esclusione, per marginalizzazione, per stigmatizzazione.

Ecco, Karim, nonostante abbia vissuto solo dieci anni, è la sommatoria di tutto questo. È lo scarto che noi abbiamo prodotto e buttato nel cestino mentale della nostra orrenda indifferenza. Karim è, la nostra non coscienza, ovvero tutto quello che noi trasliamo nell’altro, rifuggendo così dall’essere osservati per quello che siamo veramente, come l’essere un popolo fortemente violento nei confronti del corpo delle donne e dei bambini per esempio. Rovesciando come un pedalino la nostra coscienza che diventa non coscienza di se, sistemiamo nella costruzione sociale dell’altro tutto il marcio che rimuoviamo dall’armadio della biancheria sporca del nostro Io, per ripresentarci giudizi della condotta immorale degli altri, ovvero, in poche parole, semplicemente della nostra. Siamo incapaci di saperci affrontare—è questo è uno dei presupposti del riconoscimento negato all’altro — perché abbiamo paura del nostro stesso Io. In questo scenario drammatico, la morte di Karim altro non è che un effetto collaterale di un sistema di produzione e scarto delle merci che ha oramai inglobato da anni anche parte di esseri umani, e tra loro gli ultimi, le vite da scarto come quella di Karim.

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