Sergio Dragone: “La più bella poesia di Natale? È di Achille Curcio”

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images Sergio Dragone: “La più bella poesia di Natale? È di Achille Curcio”
Achille Curcio
  24 dicembre 2023 08:23

Di SERGIO DRAGONE

Una fiaba. Che illumina una notte stellata sull’altopiano della Sila, tra boschi ancora vergini e ricoperti di neve. E un uomo che ritrova sé stesso in un incredibile presepe vivente, popolato da briganti che si vestono da Re Magi e da lupi mansueti incapaci di sbranare l’agnello. Tutto intorno il silenzio della Grande Foresta, rotto solo dal vento che accarezza i rami degli alberi. 

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La più bella poesia di Natale non appartiene a Rodari o a Saba, ma al poeta della Calabria, Achille Curcio, il collezionista di sogni, l’artigiano delle “parole di legno” che dal suo microcosmo jonico riesce a parlare al mondo.

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Una lirica di profonda intensità, intrisa di malinconia, ma che mantiene vitale la speranza di un mondo migliore e manda un segnale controcorrente: i lupi e i briganti non sono quelli che popolano i boschi della Sila, ma quelli che occupano il potere, i signori della guerra e del denaro. E perciò un cuore dolente per un mondo che va a rotoli cerca nel silenzio della Grande Foresta il senso della vita. Vestendosi da pastore.

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Considero questa poesia una delle massime vette raggiunte dalla poetica di Achille Curcio che pure può vantare altri capolavori composti in quel dialetto contemporaneo così originale e nello stesso tempo piantato nella tradizione che è la cifra della sua opera.

Proviamo a leggere insieme e analizzare le strofe della poesia, apprezzandone la profondità e l’indiscussa capacità di Curcio di creare un’atmosfera degna di una fiaba.

O ventu d’a Sila,

chi arrivi currendu,

chi nova mi porti

stasira venendu?

 

Il poeta personalizza il vento che scuote i pini dell'Altopiano, un vento che parla e che porta con sè un messaggio.

Moriru li lupi

pe friddu e pe fama;

c’è armenu nt’a notta

na vucia chi chiama?

 

I lupi descritti da Curcio sono meno cattivi di quanto si immagini, sono povere bestie che muoiono di freddo e di fame e tutto sommato sono migliori di noi uomini. È il passaggio decisivo per comprendere il senso della lirica curciana. Il rapporto tra l’uomo e il lupo lo ritroviamo sia nella cultura cristiana (San Francesco e il lupo di Gubbio), sia nella più recente cultura cinematografica (“Balla coi lupi”, il film-cult con Kevin Costner). 

Tornaru i briganti

lu voscu dassandu,

vicini lu focu

ricoti cantandu.

E non solo i lupi nella magica notte stellata disegnata dal poeta, ci sono anche i briganti, altra figura comunemente percepita come negativa. Qui Curcio mostra tutta la sua grandezza, quasi a ricordarci le radici del brigantaggio, fenomeno nato come ribellione delle classi subalterne contro le dittature e le occupazioni. Il poeta sembra chiedersi: ma i veri briganti non stanno forse tra i benpensanti, tra i borghesi, tra i governanti? Quelli che popolano la Sila incantata sono capaci di redimersi, lasciare il bosco, mettersi accanto al fuoco e cantare.

Cu’ sapa chi dinnu

li pini accoppati,

cuverti de niva,

de jancu pittati!

 

Curcio dipinge quasi una cartolina natalizia, descrivendo il paesaggio innevato e anche i pini  coperti di neve sembrano capaci di animarsi e parlare.

Stasira è Natala,

è festa d’amuri,

ma u mundu è na guerra,

na hjuma e duluri.

 

Ed ecco la genialità di Curcio nel contrapporre la gioia del Natale al “fiume di dolore” che attraversa l’umanità. Leggendo questi versi oggi, il pensiero corre al fronte ucraino o alla striscia di Gaza.

 

Ed iu tantu affrittu

nte chista vijila

volera ma sugnu

pastura a la Sila.

Il cuore “afflitto” del poeta cerca riparo e consolazione, esprimendo un desiderio davvero insolito: nel giorno della Vigilia vorrebbe essere non seduto nei cenoni eleganti e straboccanti di cibo, ma vorrebbe essere un semplice pastore in Sila, alla ricerca di sé stesso e di una pace interiore che evidentemente non è semplice trovare in un ambiente urbano contaminato dal consumismo sfrenato.

 

Ma fazzu u prisepiu

ammenzu li pini,

passandu la festa

cu i lupi vicini.

Il poeta vorrebbe passare la festa accanto ai lupi, facendo un presepe in mezzo ai pini imbiancati dalla neve.

 

Cà armenu li lupi

nascendu u bambinu

teneranu mpacia

l’agneddhu vicinu.

La nascita del Bambin Gesù ha un effetto miracoloso sui lupi che, pure morti di fame, decidono di lasciare in pace l’agnello. E’ una stupenda metafora sulla conversione.

 

E quanta allegrizzi

nte chiddhi paraggi

ma vidi i briganti

vestuti ‘e Re Magi.

La magia del Natale colpisce anche il cuore duro dei briganti che partecipano all’incredibile presepe vestendosi da Re Magi. Quanta allegria suscita questa scena.

 

Nte chiddhu silenziu

chi sapa ‘e misteru

chi ducia Natala

facera daveru.

 

Che dolce Natale quello che prende vita nel silenzio del bosco silano, in un silenzio irreale che sa di mistero.

Ammenzu li lupi

ammenzu i briganti

mbischiera nt’a notta

preghieri cu canti.

Il poeta-pastore nella notte di Natale “mischia” preghiere e canti, assieme ai suoi strani e improbabili compagni, i lupi e i briganti.

 

Sentera stu cora

nu pocu acquetatu

e a notta guardandu

lu celu stiddhatu.

Guardando il cielo stellato, il poeta sente acquietare il suo cuore e allontanare i pensieri tristi per un’umanità dolente.

 

Videra a cometa

ancora chi fuja,

dappressu currera

gridandu “alleluja”.

La scena finale di questa fiaba è straordinaria. Il poeta-pastore vede in cielo la cometa e la rincorre, gridando “alleluja”, tra gli alberi. E’ il trionfo della spiritualità più vera, del senso del divino e del trascendentale, dell’autentica solidarietà umana.

Quando, molti anni fa, ho confessato ad Achille Curcio la mia predilezione per questa sua lirica, il poeta si è lasciato sfuggire un sorriso compiaciuto.

Nonni e genitori, recitate questa poesia ai bambini nella notte di Natale! Sono sicuro che saranno affascinati da questa fiaba e comprenderanno pienamente il messaggio di Curcio. E sono certo che in tanti vorremmo essere, almeno una volta nella vita, “pastori a la Sila”, a cantare e pregare nel silenzio della Grande Foresta, lontani delle luci ipocrite della Città.        

 

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