
di M. CLAUDIA CONIDI RIDOLA *
“Il processo non è uno scontro tra bene e male, ma una competizione tra verità parziali:
Stefano Ceccanti, Il Foglio, 31 ottobre 2025. La riflessione di Stefano Ceccanti si innesta con rara lucidità nel dibattito contemporaneo sulla giustizia penale, ricordandoci che il processo non è una contesa morale, ma un percorso di conoscenza, un confronto di verità parziali che solo il giudice, nella sua terzietà, è chiamato a ordinare e a valutare. È una prospettiva che acquista oggi una forza nuova alla luce della riforma Cartabia (L. 27 settembre 2021, n. 134 e D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 150), la quale ha inteso imprimere al processo penale un cambio di paradigma: renderlo più snello, più proporzionato, più rispettoso della dignità delle parti e dei tempi della giustizia. L’obiettivo dichiarato della riforma è duplice: ridurre la durata irragionevole dei procedimenti e rafforzare la qualità delle decisioni, attraverso una selezione più rigorosa dei casi che giungono a giudizio. In questo senso, l’udienza preliminare, disciplinata dall’art. 421 e seguenti del codice di procedura penale, assume un ruolo centrale. Essa non è più, o non dovrebbe essere, un passaggio meramente formale, ma un momento sostanziale di filtro, in cui il giudice è chiamato — secondo il novellato art. 425 c.p.p. — a pronunciare sentenza di non luogo a procedere qualora “gli elementi acquisiti non consentano una ragionevole previsione di condanna”.
È un criterio profondamente innovativo, che sposta l’attenzione dal semplice accertamento della non manifesta infondatezza dell’accusa alla verifica concreta della sua tenuta probatoria.
Tuttavia, la pratica quotidiana dei tribunali mostra come questo principio fatichi ancora a tradursi in comportamento giudiziario. L’udienza preliminare continua spesso a essere percepita come un’anticamera del dibattimento, un atto di transito inevitabile, quasi notarile, in cui il giudice si limita a ratificare l’impostazione del pubblico ministero. Ciò accade anche a causa dell’enorme carico di lavoro degli uffici GIP e GUP, che rischia di trasformare la funzione di garanzia in un esercizio di mera efficienza amministrativa. Ma dietro questa inerzia si nasconde un problema più profondo: la mancata separazione delle carriere, che genera, anche inconsciamente, un allineamento culturale tra chi accusa e chi giudica. Il “solco” che la riforma auspica tra giudice e pubblico ministero non è solo organizzativo, ma ideale: è la condizione per una giustizia realmente imparziale, in cui ciascuno “abbia il suo”, e in cui il giudice possa esercitare un effettivo potere di controllo e di selezione delle ipotesi accusatorie. La snellezza del processo penale, allora, non consiste nella riduzione meccanica dei tempi o delle udienze, ma nella capacità di far emergere solo ciò che merita di essere processato. È snellezza nel senso di essenzialità: un processo che evita di trasformarsi in pena anticipata, che non consuma persone e risorse in procedimenti inutili o mediaticamente costruiti, e che riconosce all’udienza preliminare la sua funzione fisiologica di filtro, di bilancia, di momento di verità.
È in questa fase che il giudice deve leggere, valutare, interrogare il fascicolo, non per ratificare ma per decidere davvero: se il quadro probatorio regge, si procede; se è incerto o lacunoso, si ferma il processo, senza che ciò rappresenti una sconfitta per l’accusa, bensì una vittoria del diritto.
La riforma Cartabia, nel suo spirito più profondo, aspira a restituire al processo penale una forma di giustizia più sobria, più equilibrata e più autentica, nella quale la distinzione dei ruoli diventi garanzia e non contrapposizione. La vera terzietà del giudice nasce da qui: dall’indipendenza strutturale e culturale rispetto al pubblico ministero, ma anche dalla consapevolezza della propria funzione come filtro di ragionevolezza e di proporzione.In questa cornice, l’udienza preliminare rappresenta il crocevia dove la giustizia può scegliere se essere macchina o misura, automatismo o discernimento. Troppo spesso oggi, infatti, il processo penale è un altare sul quale vengono immolate le condizioni stesse del giudizio: la presunzione d’innocenza, il vaglio delle prove, la prudenza del decidere. Restituire forza e dignità all’udienza preliminare significa interrompere questa deriva e restituire al processo la sua snellezza sostanziale, quella che non riduce ma valorizza il tempo del giudicare.
In definitiva, la riforma giudiziaria auspica una giustizia che non confonda la velocità con la fretta, né l’efficienza con la superficialità. Una giustizia che sappia fermarsi, dubitare, scegliere. In questo risiede la vera snellezza: nella capacità di distinguere ciò che merita giudizio da ciò che non lo merita, e di farlo nel rispetto delle regole, dei ruoli e della verità processuale. Solo così il processo penale potrà davvero emanciparsi da un’idea statica e rituale, per diventare un’esperienza viva di equilibrio, proporzione e libertà.
*Avvocato
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