“A sud di Pavese”, il regista Bellizzi "filma" il viaggio dello scrittore dalle Langhe a Brancaleone (VIDEO)

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images “A sud di Pavese”, il regista Bellizzi "filma" il viaggio dello scrittore dalle Langhe a Brancaleone (VIDEO)
Matteo Bellizzi durante le riprese del documentario "A sud di Pavese"

L’esperienza del regista che ha inseguito lo scrittore piemontese nel suo viaggio dalle Langhe a Brancaleone Calabro ed ha realizzato il docu-film “A sud di Pavese”

  18 novembre 2020 15:03

di GIOVANNA BERGANTIN

Non me l’aveva chiesto nessuno. Ricorrevano i 70 anni dalla morte di Pavese e si riparlava delle opere, dei documenti esclusivi e della vasta mole di lettere, di inediti e di ricordi personali e privati, gelosamente riposti negli album di famiglia. Ed è nella lunga estate post-covid, prima ondata, che ho cercato Pavese tra i miei libri e in quelli della biblioteca per darmi alla lettura, allo studio. Ho maturato così l’idea di fare un reportage dedicato al periodo del confino di Pavese a Brancaleone, alla ricerca di ciò che era rimasto del suo soggiorno in Calabria. L’obiettivo era di partire dai suoi scritti, dai suoi indizi, per ripercorrerne l’esperienza, seguirne i percorsi, le orme, se possibile, per rintracciare nella Calabria di oggi ciò che resta dei suoi luoghi e ritrovare qualche, seppur piccolo, segno del mondo che descrisse nel periodo di confino. Il desiderio era di mettere in luce, riprendere episodi e particolari anche poco noti, citazioni, memorie. Il risultato di questo primo viaggio è nel reportage che ho già pubblicato.

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Cesare Pavese scriveva molto e “non buttava via nulla – spiega in una recente intervista Mariarosa Masoero, direttore del Centro Studi Gozzano - Pavese dell’Università di Torino - scritti giovanili, due righi di un ipotizzato racconto, qualche verso, pensieri di tipo diaristico, piccoli brani di traduzioni, scolastiche e non, carte, appunti, che sono raccolti dentro grossi faldoni”. Un patrimonio ricchissimo che merita di essere sempre più studiato e conosciuto se mai avessimo la curiosità, il tempo e la voglia di farlo. Così, probabilmente, la produzione e la narrazione del periodo calabrese di Pavese, con testimonianze, lettere, foto e ricordi, lascia ancora larghi margini di approfondimenti e scoperte. Il mio cammino a Brancaleone, in un caldo giorno di agosto, alla scoperta di cosa c’era di Pavese,  ha dato, comunque,  i suoi frutti.

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La  locandina del docufilm A sud di Pavese 

Tra le testimonianze raccolte, mi pare Tonino Tringali, proprietario della dimora del confino di Pavese, mi accende una luce. Matteo Bellizzi, un regista piemontese, aveva raccolto con la sua telecamera molte immagini per realizzare, poi, nel 2015 il documentario “A sud di Pavese”, prodotto da Stefilm International di Torino, con il sostegno Doc Film Fund della Regione Piemonte, selezionato in concorso italiano al 33° Torino Film Festival e in lizza per il premio David di Donatello nel 2016.

E’ nella terza parte del docufilm che Bellizzi inquadra il periodo del confino. Seguendo il viaggio di una donna che torna al paese natale (interpretata da Maria Marullo, che riconduce al suo racconto di vita), Bellizzi, in virtù della verità documentaria, in 24 minuti circa, riporta la forza emotiva dei ritmi e paesaggi del sud descritti da Pavese.

Le testimonianze originali, esposte con spontaneità da attori non professionisti, ci lasciano senza fiato. L’insegnante Mela Palermiti, sorella di Angelino, sfoglia l’album di famiglia commentando preziosissime foto che documentano il fare di Pavese all’epoca del confino; Candida Camopreco vola dietro un esile ricordo di bimba, rilegge alcuni gesti dello scrittore, seduto a testa indietro fuori dalla stanzetta con vista ferrata – mare, e i frammenti di un dialogo accennato, ma potente e incisivo. “Perché leggete sempre, professore? e Lui “per vivere”.  E, poi, “a noi piccoli che lo salutavamo nel passare dalla discesina che portava al mare, accanto alla sua stanzetta, ci chiamava e ’ndi dava i mentini”.

 
Pavese con gli amici di Brancaleone nell'album di Mela Palermiti (presa dal docufilm)

Il risultato, a nostro avviso, è un resoconto coinvolgente che permette di approfondire alcuni episodi, anche di tradizione orale, che altrimenti si sarebbero dimenticati: una serie di ritratti con dialoghi, elaborati forse, ma autentici, certamente profondi e intimi, di testimoni, oggi purtroppo scomparsi. Al contempo, il regista, curioso e interessato, ci restituisce la realtà del momento, quella che si rivela ai suoi occhi, fatta di storie e personaggi reali di una Calabria più recente.

A sud di Pavese – spiega Matteo Bellizzi nella presentazione del documentario - prende le mosse da un ritorno, dopo più di dieci anni, nei luoghi in cui ho girato il mio primo documentario breve, Filari di Vite. Anche allora volevo cercare Pavese nel presente, tra gli ultimi contadini delle Langhe che sembravano usciti dalle pagine dei romanzi. Tornare vuol dire percepire il tramonto di un mondo, vuol dire attraversare gli stessi riferimenti letterari per andare oltre e vedere che cosa rimane. Pavese è diventato così la lente da indossare per rileggere la realtà, per cercare storie là dove lui ha trovato le sue, come se i luoghi fossero sorgenti ancora attive”.

Perciò ho cercato ed intervistato Matteo Bellizzi con la storia del suo viaggio a Brancaleone per girare quel documentario che io volevo vedere.

Matteo, raccontaci quel tuo viaggio a sud. Era la prima volta? 

“Sono sceso a Brancaleone molte volte in 5 anni. Dapprima ho dovuto costruire rapporti, cercare delle strade. Mi sorprese subito la grande accoglienza e disponibilità. Mi portarono nel paese vecchio, arroccato e deserto, mi sembrava quasi un ritorno più che un primo incontro. Ed era così: io quel paesaggio lo avevo già letto, lo avevo visto dentro Pavese. E quindi, per forza c’è questo tema del tornare, che può essere un sentimento universale e non necessariamente legato al proprio vissuto, ‘Bisogna sapere che noi non vediamo mai le cose una prima volta, ma sempre la seconda. Allora le scopriamo e insieme le ricordiamo’, scriveva Pavese. E per me questo è un po’ il fulcro di tutto il progetto”.


Il regista Bellizzi durante le riprese a Brancaleone  

Cos’è il lavoro finale del documentario?

“Succede che il mio produttore mi propone di realizzare qualcosa per il centenario dalla nascita, era il 2008, fu l’inizio della fine (ride), un viaggio che mi tenne legato al film per almeno 6 anni! L’idea, fin da subito, era quella di cercare nella “periferia” di Pavese, cioè ai margini di quel sistema che ovviamente aveva già detto moltissimo su di lui. Insomma, parliamo di uno dei grandissimi, cosa avrei potuto dire di nuovo? L’idea di percorrere “strade bianche” come si dice, meno battute, mi metteva sicuramente al riparo da un certo timore reverenziale verso un gigante. E quindi, fin da subito per me c’è stato questo movimento a Sud, verso l’altra terra pavesiana, in una specie di arcipelago fatto di tre territori: Le Langhe, Torino e Brancaleone/la Calabria”.

Come lo avevi immaginato all'inizio? Perché il titolo?

“Fin da subito avrebbe dovuto avere le caratteristiche di un viaggio, ovviamente non immaginavo come lo avrei iniziato né tantomeno concluso. Il titolo è venuto fuori proprio da queste premesse: c’era un Sud (una specie di mio Mare del Sud quasi, come scriveva lui) che era rimasto un po’ meno mappato, e io lo volevo incontrare”.

Cosa cercavi e cosa hai trovato?

“Vedere la realtà attraverso gli occhi della letteratura, ri-scoprire le cose sempre attraverso un riferimento ed un orizzonte poetico e letterario, è come se leggendo appartenessimo ad un inconscio collettivo che ci fa vivere la letteratura al pari di un’esperienza di vita”.

Cosa hai immortalato con la telecamera?

“Purtroppo nelle immagini, alla fin fine, c’è una minima parte di quanto vissuto. Posso dire di aver trovato amici, persone care che ora non ci sono più come Gianni Carteri, grande conoscitore e studioso, nato proprio a Brancaleone Superiore, e legatissimo a Pavese. Avrei voluto che il suo racconto entrasse nel film, ma - uno dei tanti rimpianti- le cose non hanno girato per il verso giusto e ho dovuto percorrere altre strade". 


Maria Marullo, la prof. di origini calabresi che ritorna a Brancaleone 

Ci racconti come hai scelto la protagonista del Viaggio a sud?

“Maria Marullo è insegnante di scrittura. La incontro alla Biblioteca Cesare Pavese di Torino, dove aveva avviato questo corso di scrittura ispirato a letture pavesiane. Non sapevo fosse di origine calabrese, né che si chiamasse Maria (come la sorella di Pavese!). Devo dire che tutto il lavoro è costellato di queste coincidenze che mi invitavano a proseguire, ad approfondire. Inizialmente avrei voluto solo riprendere il corso di scrittura, cercando di utilizzarlo come “specchio” per raccontare i lettori, gli appassionati, poi c’è stata l’idea del viaggio a Brancaleone e mi pareva forte che lo sguardo fosse il suo: Maria non era mai più tornata in Calabria, si era trasferita a Torino da bambina, quindi quel viaggio è diventato un ritorno a ‘casa’, in perfetto stile pavesiano”.

Ci descrivi i posti, le sensazioni, i volti, i ritmi, i colori, le espressioni e il racconto di Pavese che hai ritrovato e fermato nelle immagini?

“Mah, l’incontro con la campagna, con il paesaggio aspro e tagliente, con quei volti non così diversi da quelli incontrati molti anni prima nel mio viaggio sulle colline delle Langhe. La terra che unisce, che accomuna nord e sud nel segno della fatica, del ricordo, della nostalgia, tutti elementi universali che travalicano i confini spaziali. Per me il film è stato anche un modo per gettare un ponte tra nord e sud, di unirli sotto lo sguardo di un grande poeta. Trovare, poi, Pavese in un album di famiglia per esempio, questo è stato dirompente, insieme a fotografie di genitori o fratelli! L’idea di un Pavese a misura d’uomo, un ritratto intimo, famigliare, che riusciva ad essere più coinvolgente di quello conosciuto nei saggi o nelle biografie. Vederlo riflesso dentro un ricordo era un modo per poterlo contemplare da prospettive nuove, che mi aiutavano a definire meglio i contorni. Pavese il professore, lo scrittore, il poeta…Pavese soprattutto uomo”. 

Mela Palermiti, sorella di Angiolino, amico di Pavese

 Ci descrivi l’incontro con le due testimoni che sei riuscito a filmare?

“Mela Palermiti aveva questo album di famiglia con alcune foto di Pavese, quelle che si trovano nei saggi sul confino, le sue erano le originali. Mi racconta del fratello, caro amico del Professore, e riapre un vecchio quaderno su cui aveva scritto una filastrocca dedicata all’arrivo di Pavese alla stazione di Brancaleone. Ricordo la sua ritrosia iniziale, come un pudore che ho trovato spesso al sud, poi di fronte all’insistenza ha capito che ero lì per recuperare ogni minimo frammento di storia e me lo ha consegnato con grande generosità. Lo stesso vale per Candida Camopreco, lì c’è stato un vero e proprio “corteggiamento” da parte mia, perché quel ricordo di Candida bambina che incontra il professore che si dondola sulla sedia appoggiata al muro della casa, e a cui lei rivolge timida quella domanda potentissima “professore, ma perché leggete sempre?”, per me aveva la potenza e il valore di un pezzo di letteratura. Questo lavoro di ricerca, di attesa e di recupero direi che è stato il metodo per dare forma a tutto il racconto”.

Che materiale e che esperienza hai portato con te? Qualche aneddoto e ricordo del tuo viaggio.

“Tanto non detto, sì. Cose che mi sono sfuggite per un soffio, per esempio le testimonianze di chi, bambino, andava a lezione di greco e latino nella casa del confino di Pavese, in quell’estate del 1935. Quando fui pronto con le riprese, quelle persone non c’erano già più. E poi i pranzi e le cene con gli amici a Brancaleone, il mare d’ inverno durante i sopralluoghi, la rabbia per certo degrado che non rendeva giustizia a quell’animo nobile che trovavo nella gente… Insomma, un Sud che ai miei occhi di Piemontese assumeva sempre più i tratti di un luogo famigliare, come credo sia rimasto legato al cuore di Pavese per tutta la vita…”. 

Candida Camopreco (durante la sua testimonianza  presa dal docufilm)

Che importanza ha avuto nella tua formazione Cesare Pavese?

"Sicuramente molta, con un passaggio piuttosto tiepido al Liceo, quando non hai ancora i ricettori giusti per appassionarti davvero ad un autore. Ripreso poi grazie ad un amico, un fotografo torinese che si chiama Andrea Ferrari, era il 1999, avevamo poco più di vent’anni, mi disse “sto andando sulle colline a cercare questa gente qui” e mi passa un libro di poesie di Pavese, in particolare “La terra e la Morte”. Ci folgora l’idea di questa personificazione data al paesaggio: la collina mammella, la fronte di pietra scolpita, anche tu sei collina… Insomma, c’era già dentro questa idea “panica” di un sentimento di fusione tra l’uomo e la terra. Ecco, ci interessava soprattutto quello. Incontrammo contadini, gente autentica che ancora aveva nella voce quel suono che trovavi leggendo Pavese e poi leggevamo anche Nuto Revelli con le sue ricerche etnografiche, Lajolo e Fenoglio ovviamente, insomma…l’impasto era quello. Io realizzai un corto “Filari di Vite” proprio intrecciato sulle poesie di quella raccolta, cominciammo a partecipare ai primi Festival, a capire che la letteratura era quasi un manuale per vedere meglio le cose, per trovarle”.

CHI E' MATTEO BELLIZZI. LA SCHEDA

 “Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”. (Cesare Pavese, La luna e i falò, cap. 1)

 

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