di AGAZIO LOIERO
Da quando la Democrazia Cristiana è stata cancellata dalla scena politica - sono trascorsi circa 30 anni – spunta di tanto in tanto qualcuno che ne scrive. Talvolta per denigrarla, talvolta per tesserne le lodi. Molto spesso, in questo secondo caso, sono ex democristiani a descrivere con una certa nostalgia il percorso cinquantennale del loro partito. Qualche altra volta, ma molto più raramente, a scriverne in termini positivi sono italiani di buon senso che conservano il gusto del raffronto tra la politica di oggi e quella di ieri. Lo scorso venerdì l’ha fatto Galli della Loggia sul Corriere della Sera. Accennavo ad una certa nostalgia. Questo sentimento, come mi capita spesso di ricordare ad alcuni amici, affetti da questo male oscuro, è controverso. Sull’onda dei ricordi spesso addolciti dal tempo e da una memoria accondiscendente, gli eventi appaiono, a distanza di decenni, quasi sempre radiosi. Ma nella realtà non sono stati sempre tali.
Di recente ho letto due libri sulla storia del partito di De Gasperi e Sturzo. Il primo è un’intervista rilasciata dall’ex parlamentare calabrese Pierino Rende al bravo giornalista Attilio Sabato. Il libro (editore Pellegrini) è stato presentato, fra gli altri, anche dal sottoscritto il 25 luglio scorso a Cosenza. La circostanza mi esime dal ripetermi. Mi limito a ricordare che l’autore esibisce una non comune cultura storica e che l’intervista è molto bella. Anche il secondo libro scritto dall’ex senatore Maurizio Eufemi è di qualità. L’autore, nel raccogliere le raccomandazioni di Gerardo Bianco, da poco scomparso, presenta gli itinerari politici di alcuni personaggi dell’associazionismo cattolico, protagonisti a diversi livelli istituzionali nella vita del Paese. Da De Gasperi a Moro e ad altri personaggi meno famosi. Il libro, la cui prefazione è affidata allo storico Francesco Malgeri, sin dal titolo “Una storia mai scritta” è una difesa ad oltranza della Dc. Da Camaldoli a “Mani pulite”. A Camaldoli in quei giorni immediatamente precedenti al 25 luglio del 1943 - con l’Italia dunque ancora in guerra - un gruppo di cattolici, tra i quali alcuni giovani di talento, prefigurò un alfabeto simbolico del tutto nuovo per mezzo del quale solidarietà e giustizia diventeranno di lì a poco elementi essenziali della vita civile del Paese. Ricordo incidentalmente che la nostra Costituzione, sotto la spinta di quei giovani, fu la prima al mondo a adottare la parola “solidarietà”. Stupisce e un po’ spaventa quindi – giusto per fare un veloce riferimento all’attualità – che oggi l’autonomia differenziata, quella solidarietà, intenda mandarla al macero. Il libro di Eufemi ruota quasi per intero sulla funzione svolta dalla Dc in questi lunghi 50 anni. Ne parlano in tanti, da Giuseppe Gargani a Gilberto Bonalumi, a Mario Tassone, allo stesso Pierino Rende.
Un accenno all’Italia del dopoguerra. La Dc, com’è noto, eredita nel dopoguerra un’Italia piena di macerie. De Gasperi animato dalla sua febbre operativa, insieme con i partiti laici, suoi alleati, ricostruisce al Nord le fabbriche distrutte dai bombardamenti. Poi volge lo sguardo al Sud, dove vara la Cassa per il Mezzogiorno che costruisce strade, ponti, dighe, nel tentativo di cancellare lo stato di arretratezza che da tempo immemorabile affligge questa parte dolente del territorio nazionale. In pochi anni diventa l’autore principale di quello che viene dappertutto definito il “Miracolo economico”. Sulla scena internazionale l’Europa appare divisa in blocchi. Di qua l’Occidente, in grandissima parte libero, di là l’Unione sovietica, fortemente collegata in Italia con un agguerrito partito comunista. Nell’incandescente clima politico del tempo le elezioni del 18 aprile 1948 rappresentano uno spartiacque. La Dc e la Chiesa si mobilitano con tutti gli strumenti di propaganda immaginabili. Alcuni grossolani ma per la società dell’epoca, in parte ancora analfabeta, efficaci. “Nel segreto dell’urna Dio ti vede, Stalin no”. Gli italiani sono chiamati a compiere una scelta radicale tra libertà e una teorica uguaglianza che in verità copre crimini di massa. E’ lo stesso Krusciov a svelarli agli occhi del mondo nel 1956, nel corso del XX congresso dei partiti comunisti.
Torniamo alla Dc. Ai suoi tic, alle sue debolezze e anche ai suoi peccati. Il partito, con i riti che si replicano di anno in anno, è un arcipelago. Due i suoi principi inderogabili: l’unità del partito e il ripudio dell’uomo forte. Non è un caso che lungo l’arco di un cinquantennio non subisce scissioni importanti. Quando nella difficile fase della solidarietà nazionale - Pomicino ma anche altri chiedono a Moro di andare avanti senza i comunisti lo statista pugliese, consapevole di una possibile spaccatura del partito, risponde con una frase che fa scuola: “Meglio sbagliare uniti che avere ragione divisi”. La Dc, come accennavo, aborre l’uomo forte. Se qualche suo leader ne assume le sembianze, vien detronizzato in poco tempo. L’arcipelago è organizzato in correnti, all’interno delle quali i suoi componenti trovano una tana protettiva che garantisce la loro carriera, ma trovano anche un’implicita disciplina, mai formalmente enunciata, ma ferrea. L’uomo forte che il partito ripudia è nei fatti consentito nelle correnti, dove esiste la figura del capo. Chi si ribella è segnato a dito ed è destinato a essere espulso dai famosi organigrammi interni. Quasi sempre l’aspetta un destino di solitudine. Pochi i casi delle figure in grado di sopravvivere fuori da quel recinto. La carriera politica nella Dc altro non è che una progressione graduale: prima si diventa componente del direttivo della sezione, dove si apprendono i rudimenti della dottrina del partito, in cui ideologia e Vangelo si frammischiano. Poi si fa il salto nel consiglio comunale, quindi consigliere provinciale, talvolta consigliere regionale. In alcuni casi particolari, in cui la fortuna e l’intelligenza si combinano con una felice scelta del tempo, si diventa parlamentare. La fedeltà alla corrente offre infatti in premio l’inserimento nella storica quaterna garantita. Donat Cattin, un politico dotato di un istinto felino, aveva il culto del tempo. “Nel programmare un’impresa politica” – soleva dire – “la scelta del tempo conta all’’80 per cento, nel restante 20 per cento convivono stipate l’intelligenza politica, la fortuna, la capacità tattica”. In tutta evidenza un paradosso, ma non privo di fascino iperbolico.
Concludendo, esistono due elementi che rendono diversa la storia della Dc rispetto a quella di tutti gli altri partiti. I cattolici in Italia, alla luce degli equilibri internazionali, sono stati condannati dalla storia a governare per l’eternità. L’alternativa sarebbe stato il comunismo che nessun paese dell’Occidente avrebbe mai accettato. La mancanza di alternanza, che è il lievito di ogni democrazia, ha di conseguenza in certe occasioni trasfigurato l’immagine della Dc concentrandola solo sulla conquista del potere, snaturando la nobiltà delle origini. Il potere con il suo fascino oscuro ha infatti spesso favorito trame poco virtuose.
Il secondo elemento è la fede. Non è facile conciliare fede e politica. E comunque resto del parere che la fede aiuti. Non a risolvere i complessi problemi sempre presenti nel governo della cosa pubblica, ma nell’infondere un di più di forza nell’affrontarli. De Gasperi pronunciò una volta una frase illuminante: “Reggere uno Stato implica un forte rapporto con Dio”. Ma mi rendo conto che qui ci troviamo di fronte alla considerazione di un gigante, rischiarato dalla grazia
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