di TERESA ALOI
LAMEZIA TERME- Se non ci fosse stato quel bidello seduto dietro una delle tante scrivanie dell’Università Federico II di Napoli, o meglio se quel bidello non avesse dato quell’indicazione a gesti anziché con le parole, forse Amalia Bruni non sarebbe quella che è oggi. Una scienziata di fama mondiale, una donna straordinaria che ancora oggi, a distanza di tempo, è capace di commuoversi quando parla dei suoi studi. È lei che ha individuato la presenilina 1, il gene dell’Alzheimer, lei che dirige il Centro regionale di Neurogenetica con sede a Lamezia Terme, che da anni opera nella ricerca e assistenza alle persone affette da malattie neurodegenerative e demenze, attraverso una serie di attività orientate al miglioramento della qualità della vita dei pazienti. Lei, che ridà speranza a chi, forse, di speranze, ne ha poche.
Era appena una ragazzina, Amalia Bruni, quando chiese a quel bidello dove fosse la segreteria di Malattie mentali e lui gli indicò, con la mano, la segreteria di Neurologia. Ma forse, bidello a parte, era scritto nel suo Dna che dovesse diventare quello che è oggi: alcuni zii avevano avuto posti di responsabilità nella direzione dell’ospedale psichiatrico di Girifalco. L’ex manicomio, già. Polo di osservazione e ricovero per tutta la Neuropsichiatria non solo calabrese che ricoverava oltre 16.000 pazienti, da dove tutto parte e tutto arriva. Lì, dove nel 1904 venne rilevato il primo caso di Alzheimer.
Tra le sedicimila cartelle presenti nell’ex struttura, il team del Centro di Neurogenetica ha individuato quella di una donna di Nicastro: Angela, 38 anni, che mostrava i segni della malattia già tre anni prima che questa venisse scientificamente descritta dal medico tedesco Alzheimer. Oltre trenta anni per ricostruire l’albero genealogico (e ancora non è completo) 11 anni di studi di Biologia molecolare per isolare il gene alterato. Storie di madri e figli che si “intrecciano”. Di padri, di zii, nonni. Dolorose storie di emigrazione che attraversando migliaia di chilometri arrivano dall’altra parte del mondo portandosi dietro eredità pesanti come macigni e, che piano piano, compongono , come fossero rami, l’albero genealogico dove i cognomi cambiano e nuovi malati si aggiungono. Dove le famiglie vengono riagganciate ricostruendo passo dopo legami e generazioni.
“Quando iniziammo lo studio – racconta la professoressa Bruni - si sapeva, solo molto genericamente, che esistevano raggruppamenti familiari di malati di Alzheimer. Non era stato dimostrato - e soprattutto calcolato - che questi raggruppamenti fossero famiglie in cui la malattia si trasmetteva dal genitore affetto alla metà in media dei figli e dunque con modalità della dominanza mendeliana”.
Oggi è tutto diverso grazie a quella parolina magica che è ricerca ma che ancora troppo si fa fatica a mettere in atto. Ma qualcosa si sta muovendo. Se prima ci volevano ben cinque anni dall’insorgere dai primi sintomi alla prima vista medica, oggi il gap si è ridotto a tre e mezzo. E’ come aver preso coscienza che non c’è nulla di cui vergognarsi nell’ammettere di avere vicino qualcuno che non ricorda, che fa fatica a parlare, a camminare. Certo il lasso di tempo è ancora troppo, ma è per abbattere questo e tanto altro che esistono donne come Amalia Bruni.
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