Antonio Bevacqua: "Il Pd dei baroni non pensi a un semplice maquillage"

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Antonio Bevacqua
  05 dicembre 2022 14:22

di ANTONIO BEVACQUA

Non basta solo sostituire il segretario nel PD per risolvere una condizione che, a mio avviso, affonda le sue radici proprio nella fase costituente del partito.

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Ricordo che quando nell’estate del 2007 fui convocato a Roma per sancire lo scioglimento della Margherita guidata da Rutelli, quel tempo ero membro nell’Assemblea Nazionale, manifestai la mia contrarietà all’operazione, soprattutto in ragione della fusione coi post comunisti, dai quali ci diversificavamo per origini e prospettive. In realtà, purtroppo, nonostante le dichiarate buone intenzioni del “Comitato 14 ottobre”, composto dai 45 padri fondatori del Partito Democratico,  si pervenne in pratica ad una fusione in gran parte mirata al salvataggio delle potenti gerarchie burocratiche e parlamentari della Margherita e dei DS, un’operazione cui fece seguito la sconfitta elettorale del 2008 dove il centrodestra conseguì un vantaggio di ben di dieci punti.

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Il resto è una lunga storia che, se si esclude la meteora renziana col risultato del 40% alle europee, è fatta per lo più di sconfitte nate sotto le stelle di molte primarie spesso farlocche, di incongruenti scelte localistiche, come accaduto ad esempio per un paio di elezioni regionali in Calabria o recentemente a Catanzaro, di imperterrita gestione interna di due partiti mai davvero estinti nelle proprie componenti rappresentative, di numerosi cambi di segreteria, ben dieci in quindici anni, di inconcludente identità dei temi politici trattati, di tradimento della questione meridionale, in quest’ultimo caso basti pensare al comportamento dei componenti PD nella Commissione per l'attuazione del federalismo fiscale.

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Il risultato delle recenti elezioni ora dice che gli elettori il naso non se lo turano più e, al minimo, non vanno a votare. A nulla serve, perciò, il patetico riferimento di più di un dirigente al “primo partito di minoranza” come se ciò possa essere considerato un primato: aver ceduto il governo del Paese alle destre soprattutto per non aver saputo competere applicando le regole della legge elettorale vigente, fortemente formulata da Rosati e votata dallo stesso PD, basta a dimostrare tutto il fallimento di un partito che qualcuno, forse a ragione, ha definito, “nato per perdere”.

Ecco perché in molti ci aspetteremmo che l’attuale classe dirigente del PD, tutta intera, senza distinzione tra chi ha colpe o chi si è solo macchiato di omissioni, tragga le conseguenze della disastrosa condizione nella quale versa il partito, un partito di “baroni”, come lo ha lucidamente definito Carlo De Benedetti: l’alternativa del maquillage fatta solo di un nuovo segretario, come si sta tentando di fare con Bonaccini/Nardella o con la neo pasionaria Elly Schlein, ma con la vecchia nomenclatura in sella, sarebbe letta molto male, con l’aggravante della prospettiva di una trazione interamente nordista e a vocazione autonomista.

Ho letto gli interventi degli iscritti di Chiaravalle e del caro amico Prof. Ernesto Palma che, se uniti ai tanti discorsi che si fanno con chi come me da tempo si è allontanato dalle descritte logiche, dimostrano che le risorse per realizzare l’alternativa interna ed esterna esistono e sarebbero pure pronte ad intervenire ma la condizione è che probabilmente gli incauti si facciano da parte.

 

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