
Di DOMENICO BILOTTI*
Ho letto con interesse e partecipazione le notizie circa l'inaugurazione di un ambiente dedicato al culto islamico presso l'Università e riguardanti le successive polemiche avanzate dal deputato di una forza politica come la Lega, di recente ma non residuale radicamento in regione.
La soddisfazione degli interessi religiosi di una comunità è inequivocabilmente una forma di gestione degli spazi, materiali e immateriali. Musulmane e musulmani indiscutibilmente sono tra gli studenti del territorio, a effetto almeno di tre oggettivi fenomeni demografico-culturali: la presenza di Italiani convertiti (più ridotta) e la fede islamica di famiglie di cittadinanza italiana anche da più generazioni, sebbene provenienti da altre terre; i flussi migratori che hanno aumentato in tutta l'Europa occidentale la presenza di fedeli e musulmani e ortodossi; più in piccolo e nel caso di specie, le modalità di accesso alle facoltà mediche. Essendo queste ultime sin qui basate su un sistema di reclutamento nazionale, inevitabilmente hanno portato alle nostre latitudini ragazze e ragazzi di altre regioni, nelle quali le esperienze religiose sono più diversificate e stratificate di quanto non sia da noi.
I luoghi destinati al culto, esattamente come l'associazionismo che si realizza attraverso persone giuridiche, dipendono dall'esistenza o meno di chi se ne avvalga. E ad aver ben chiaro questo principio era proprio uno tra gli ideologi della prima Lega Nord, il federalista Gianfranco Miglio. In uno scritto dell'inizio degli anni Ottanta su pace, guerra e stato di diritto sosteneva che un principio di inclusione è sempre necessario allorché si voglia evitare che maggioranze e minoranze, nonché ordine legale e ordine illegale, si scambino la veste solo sulla base dei loro rapporti di forza. Anziché pensare dispendiosamente i rapporti politici in una catena di "vincitori/vinti", la nascita della cittadinanza propone un governo di autonomie locali che si fonda nel consenso, nella soddisfazione dell'interesse e nella cooperazione. Miglio, dicevamo, non al-Gazhali.
E va anche ricordata una cosa: a differenza di altri Paesi, difficilmente prima che negli ultimi vent'anni la cultura della destra aveva avuto una curvatura anti-islamica. Pur non esprimendo in ciò mia personale simpatia, non riesco a non ricordare l'impegno di Balbo per attrezzare di moschee le comunità italo-libiche o l'attenzione di Tucci e Gentile per gli studi di orientalistica. Tucci già negli anni Trenta era andato ancora più lontano di Medina: era diventato il più grande esperto al mondo di religiosità tibetana.
Certo, bisogna difendere la tradizione... La tradizione dice che i rapporti locali con le istituzioni religiose islamiche hanno una consistenza storica innegabile. Nel breve periodo della dominazione saracena (che pure non è affatto un modello politico auspicabile), "al-Qatansar" fu una delle entità amministrative territoriali più progredite nei commerci e più esposta ai mutui contatti socio-culturali. E furono le persone in carne e ossa, e non i loro rappresentanti ufficiali, esaurita quella esperienza, a insorgere per tornare sotto l'alveo giuridico-culturale bizantino.
Nelle parole, certo accorate, dell'onorevole Rossano Sasso, che parla di rischio di "sottomissione" , c'è il riferimento a una diversa e grave recente vicenda internazionale. Utilizziamo da allora il termine sottomissione, e facciamo riferimento all'uccisione di Theo Van Gogh nel 2004 ad Amsterdam, ad opera di un gruppo di estremisti: un regista olandese che era addivenuto a una aspra critica dell'islamizzazione. E con lui la documentarista e autrice Ayaan Hirsi Ali, la cui opera più nota era titolata, appunto, "Non sottomessa".
Il punto fondamentale però è che i due denunciavano proprio la censura e le autocensure, le propagande e violenze clandestine: non le organizzazioni trasparenti, le norme chiare o gli strumenti di governance deliberati. Perché se non c'è una coesistenza vissuta attraverso canali riconoscibili davvero quando mutano i contesti si rischiano di giustificare le prevaricazioni e gli abusi.
Sono convinto che le università e i luoghi di formazione tutti debbano preservarsi, e se possibile accrescersi e strutturarsi, come palestre di pensiero critico e libero. Capaci di articolare proposte di soluzione e di avanzare ricerche che abbiano una ricaduta vera, centrata, solidale. Ed è in fondo nella loro tradizione (di nuovo) sostanziale, che affonda nei chierici prima, nelle autonomie poi e incrocia il kit della civiltà liberale, rappresentandone contemporaneamente un utile serbatoio e un significativo fronte di critica interna. Proprio in tal senso, direi, che essere all'altezza di un nome impegnativo come "Magna Graecia" oggi passi esattamente da questo: abitare il presente senza nessun cedimento alla propria storia di elaborazione consapevole del contatto e della comunità. La sottomissione è invece l'opposto: rifiutare l'incontro plurale e credere che i recinti siano la nostra sola possibile condizione abitativa.
*Docente UMG
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