Caro amico che a Napoli vivi e la Calabria ami, ti parlo degli occhi di don Mimmo Battaglia, il tuo vescovo nuovo..

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images Caro amico che a Napoli vivi e la Calabria ami, ti parlo degli occhi di don Mimmo Battaglia, il tuo vescovo nuovo..
Franco Cimino
  01 febbraio 2021 22:56

di FRANCO CIMINO

Matteo caro, don Mimmo Battaglia, te lo affido. E tu, affidati a lui. È una gran bella persona. Vallo a trovare, lui ti conosce già. È un uomo ispirato. Ricco di sensibilità. E di visione. Ha quegli occhi...Quegli occhi da cui scende amore come se piovessero le lacrime di Dio o di tutti gli uomini, dinanzi alla meravigliosa bellezza dell’uomo. E della vita che intorno a lui, e dentro di lui, si muove. Come nuvole nel cielo, ora bianche, ore diversamente grigie, ora scure. La vita, che è il cielo. Il cielo che resta. Sempre uguale. Sempre bello. Anche quando minaccia e fa tempesta. Anche quando scatena il vento che sembra voler distruggere tutto e invece ci scompiglia solo i capelli. O ci vola via i cappelli e qualche lenzuolo distratto dai balconi. Sempre se stesso, il cielo. Anche quando si fa scuro scuro e trasforma il giorno in notte e i lampioni si risvegliano anzitempo. La bellezza del cielo, la bellezza che è il cielo, è nella sua capacità di riflettere ogni altra bellezza. Di ispirarla. E poi di riflettersi in quelle bellezze che hanno dimenticato di esserlo, e vagano perdendosi lunghe le strade della sofferenza e della solitudine.

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La forza del cielo è la luce. Non esiste e non esisterà mai il cielo senza luce. Persino di notte, c’è luce. Nulla può oscurarlo. Se non gli occhi nostri quando si chiudono alla sua vista. O quando pensiamo di poterne fare a meno di guardarlo e camminiamo con gli occhi bassi, o puntati su qualsiasi obiettivo che non siano altri occhi. Quelli dei nostri figli. O gli occhi di nostro padre e quelli di nostra madre. Non li guadiamo mai. Non guardiamo quelli dei nostri fratelli. E del nostro fratello, quando all’improvviso ci appare sulla strada. Per non correre il rischio che gli occhi suoi si attacchino, come calamita, ai nostri e ci interroghino, cambiamo marciapiede o li scartiamo con la rapidità che aveva Maradona con il pallone ai piedi. Non guardiamo neppure gli occhi della nostra amata/o, per pigrizia e quella “scontatezza” che ci domina dal momento in cui si è concessa/o a noi, e presuntuosamente pensiamo di esserne diventati padrone/a della sua vita. Tutto questo l’ho imparato anche da Lui, il tuo nuovo amico. Il nuovo amico della tua Città.

Gli occhi di don Mimmo. Ah, i suoi occhi! Ti parlano prima che pronunci le parole. Al posto di queste e non perché gli manchino, ché di parole ne ha infinite. Gli sgorgano dal cuore, come acqua dalla sorgente che disseta e lungo il cammino cresce di se stessa e si fa ruscello, torrente. E fiume, che nel mare si conduce senza perdere una sola goccia del suo inizio. Parole che danzano nella Parola. Eleganti e vellutate, profonde e sincere, esse non hanno bisogno né della robustezza teologica, né del fascino della poesia. Hanno Dio al suo interno. E si fanno poesia. Racconto. Del cammino dell’uomo. Suono, nel respiro della Terra. Immagini, nel sogno che ci portiamo dentro. E forza di poterlo sostenere, ché il sogno affatica sul dovere di perseguirlo senza fermarti alla prima sua caduta nella strada fangosa. Si fanno Parola, che è speranza di vita. Nuova, qui, sulla terra, la casa di ogni essere umano. Casa da custodire e da difendere dagli egoismi di chi, come dice Francesco e con don Mimmo con Lui, imponendo l’ingiustizia attraverso un potere ingiusto, se ne sente il padrone e vorrebbe continuare a sfruttarla per realizzare ricchezza illecita. E a violentarla per dispetto e cattiveria. A consumarla per ignoranza e stupidità.

La Parola è liberatrice. E rivelatrice. Della Verità. Le parole di don Mimmo, sono liberatrici. Di ogni inutile ingombro dell’animo umano, l’ipocrisia, la menzogna che non ha bisogno del linguaggio per far male, per esempio. La viltà o l’indifferenza, anche, le due facce della stessa medaglia, la “deresponsabilizzazione” rispetto al compito che l’uomo ha ricevuto. Da Dio, per i credenti, o dalla Ragione. Il compito di realizzare la Pace in ogni luogo. E la giustizia nella libertà, senza la quale nessuna Pace può realizzarsi. Ché la Pace non è soltanto assenza di guerre guerreggiate, ma il luogo in cui ci sia pane per tutti. E lavoro, liberante e creativo, per ogni essere umano. E la ricchezza sia spartita secondo giustizia, come la fatica sulle spalle di chi lavora. Le parole di don Mimmo liberano e legano allo stesso momento. Assolvono e vincolano nel contempo. Assolvono dalle nostre chiusure rispetto all’altro, dalle nostre supponenze ed arroganze, dalla nostra cecità dinanzi al male inflitto a tanta gente. E alla povertà che, come la macchia d’olio, si è estesa fino a noi. E alla nostra stessa porta di casa sta per bussare o ha già bussato forte.

Legano, le parole di don Mimmo, ad una nuova responsabilità, che nelle mani che lui stesso ti stringe nella custodia delle sue, diventa impegno solenne. Giuramento davanti a Dio e all’Umanità, di battersi, ciascuno di noi, per liberare ogni essere umano dalle miserie e dalle violenze di ogni sorta che lo colpiscono. Di essere coraggiosi, ci obbliga, per non fermarsi mai dinanzi alla prepotenza di chi usa la forza dei muscoli, e di ogni potere da questi sollecitato, al posto del cuore e della ragione. Ci obbliga a farci bambini e vecchi, nel contempo, in questo mondo pieno di superman e di falsi eroi. Bambini, per portare nel mondo l’innocenza perduta e riempirlo di freschezza, di fiori e di incanto. Bambini, per disegnare il futuro. Bambini, per riproporre il diritto di abitare l’avvenire. E vecchi, per arricchirlo di saggezza, ti fortezza delicata, di favole smarrite. Di esempi di vita. Di cammini compiuti e di tracce lasciate per rendere più sicuro il cammino degli altri. Vecchi, per educarci ai valori della fragilità e della tenerezza. E a quello dell’importanza che ha la vita per tutti fino a quando non sarà finita, in quel concetto cristiano nel quale si racchiude il valore esclusivo di ogni essere umano. Che non misura le persone sulla capacità reddituale, né su quello della produttività al servizio di una economia consumistica e di una cultura edonistica, che cure le cose e le persone. Le cose cerca e le persone “ inutili” scarta. Gli occhi di don Mimmo...Ah, gli occhi suoi! Sono strapieni di santità. Lui ti guarda fisso nei tuoi. Li attraversa, non per scrutarli, ma per capirti. Vi sosta all’interno, non per spiarti, ma per accarezzarti. Anche le paure e la speranza che le trasforma. Guarda gli occhi tuoi per riposare i suoi sguardi dolenti sul mondo. E le braccia, sempre protese all’abbraccio o portate a sollevare il fratello piegato, caduto. In ginocchio contro il potente che lo affama e lo schiavizza.

I suoi occhi...Ah i suoi occhi neri, che mentre guardano i tuoi si sollevano al cielo e cambiano di colore. Come diventano? E chi lo sa! Sono così pieni di luce che puoi vederci tutti i colori della natura. E quelli del cielo celeste quando si fa aurora, alba, imbrunire e tramonto e sera. Tra poche ore don Mimmo farà il primo suo primo ingresso nella Cattedrale e a Napoli. Io sto scrivendo di Lui a quest’ora della sera. Lo immagino seduto alla scrivania a ripassare o a integrare il suo discorso di insediamento. Che sarà, di certo, uno dei più belli che la chiesa cattolica sparsa per tutto il mondo abbia mai potuto “ sentire”. Lo immagino solo nella stanza con la mamma accanto, che lo invita a riposare, come lo esortava nelle lunghe notti della modesta casa di Satriano. Specialmente, quelle che segnavano le fasi di passaggio e quelle delle scelte totali. Ancora una volta, Don Mimmo, si vestirà di fragilità, aprirà il cuore alla paura e vi farà entrare la mamma. Nel pianto fanciullo le domanderà se avrà la forza per reggere il peso di una responsabilità così grande. E perché Francesco ha scelto proprio lui, il più umile, l’ultimo dei suoi preti, per una cattedra così alta. Le domanderà, soprattutto, se ne è degno di occuparla, lui che maestro non si è mai sentito, soldato disarmato nelle strade della sofferenza, con le mani piagate e le scarpe consumate, quale é sempre stato. Adesso mi sembra proprio di vederlo, la testa raccolta nel seno della madre, i capelli folti e neri infilati tra le dita delle sue mani che glieli accarezza, mentre ascolta le parole antiche, sussurrate come quella ninna nanna. Gli dice di non aver paura, come lei non ne ha avuta quando felicemente lo ha consegnato alla chiamata del Padre Celeste, che di lui si fida perché è rimasto quel ragazzo di sempre. Con Gesù sulla bocca, Dio nel cuore, il Cielo negli occhi e nelle braccia il dolore del mondo.

Nella mente una sola idea: salvare quanti più esseri umani non si possa. E un sogno: la felicità per tutti gli uomini, con gli ultimi a indicarne la via. Poi, si apparterà. Si raccoglierà nella solitudine più profonda davanti a quel crocifisso e pregherà a lungo. Penserà anche al padre, che gli ha insegnato ad andare per il mondo e a non scordarsi delle radici. Piangerà ancora e pregherà più profondamente. Questa notte sarà ancora lunga. Anche la mia. Ma domani arriverà. Alle diciotto. A Napoli. E sarà festa. Di lotta, di preghiera. Di canto e di riscatto.

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