Francesco Gigliotti è stato Mastro Ciccio da sempre. Perché si chiamasse così io non l’ho mai saputo. E neppure domandato. Mi bastava capirlo dal presumibile fatto che fosse capace di mille cose e di molto mestieri. O, forse, perché umile e generoso per carattere egli fosse sempre disponile a fare. E a fare per gli altri. A donarsi e a donare. Per gli altri. Solo e sempre per chi non fosse lui. Infatti Mastro Ciccio per curare gli amici trascurava sé stesso. Per badare a tutti, non pensava alle cose sue. Quelle, per esempio, riguardo al suo futuro di giovane, a farsi una famiglia.
Ad avere un lavoro sicuro, dopo quello lungamente “ gratuito” speso per le persone e le cause in cui credeva. Sin da giovanissimo, vi credeva. Fin da quella età della vaghezza e dello svago( per i suoi coetanei, evidentemente) vi credeva. Famiglia e lavoro acciuffati in extremis parecchio più tardi, rispetto alle promesse ricevute. Quelle della vita, soprattutto.
Una vita futura che lo sollevasse dalle fatiche e dalle tristezze di quella vissuta, tra la sua Cicala e Catanzaro, nella sua timidezza e nel suo altruismo, nei i suoi sogni nascosti e nelle sue lotte solitarie. Nei suoi occhi tristi e nel suo sorriso stretto, ambedue ben visibili. Gli occhi a chiederti di volergli bene e di entrarvi per conoscerlo meglio. Il sorriso, per rassicurarci tutti che lui ci avrebbe voluto sempre bene. Quegli occhi per chiederci di non andare. Quel sorriso per confermarci il suo restare.
Allo stesso modo che per il suo, in fondo, unico viaggiare, tra Cicala e Catanzaro, simbolicamente rappresentativi dei suoi due mondi. Ambedue racchiusi in quel suo unico immaginario. Il mondo dell’Amore. L’Amore vero in cui si racchiudevano tutti gli altri grandi Amore. Il primo assoluto, per la madre, la donna fiera e coraggiosa, che quel figlio ha cresciuto con forza e orgoglio, fierezza e dignità. In quell’amore vi era quello per Cicala, il piccolo comune del quale decantava sempre non solo le sue bellezze negate, ma anche le enormi potenzialità da altri non viste, se non, in ultimo, da una magnifica donna “ forestiera, che di questo paese ridente ne ha fatto una casa accogliente, per conservare nei più indifesi la memoria del loro cuore. Il secondo amore è per Catanzaro.
Il capoluogo è stato per lui giovinetto ciò che che è stato per tutti i ragazzi della periferia, i quartieri della stessa Città compresi. È stata un luogo magico, lo spazio enorme in cui avrebbe trovato tutto. Uno spazio in cui ampliare i propri sogni per vederli trasformati in possibilità. Qui c’era anche la passione politica da materializzare nei grandi progetti delle personalità della politica non solo da lui considerate grandi. Qui, ancora più grande gli appariva il suo partito per sempre, la Democrazia Cristiana. Un partito sempre servito con abnegazione, oblatività, umiltà.
Lo stesso servizio impiegato per quelle personalità che lui aveva scelto con lo stesso spirito e lo stesso amore. Gli amici più grandi, perché più grande era la stima per loro. Più grande il suo affetto per loro. Sconfinata la sua fedeltà. Partito e personalità, mai traditi, mai abbandonati. Perché mastro Ciccio era fatto di quei sentimenti veri, forse oggi scomparsi. I sentimenti che sono accompagnati da una sola parola. Quella pronunciata dagli antichi amanti:” per sempre”. E “ Per Sempre” fu il giuramento alla donna amata, che il buon Dio o la buona sorte, o non so chi, gli fece trovare quando meno se lo aspettava, avviatosi come sembrava, anche per l’abbandono di quanti lo avevano abbandonato non dovendolo mai fare, verso quel cammino di solitudine in fondo, forse, mai deviato.
Corona così un sogno probabilmente neppure mai sognato tanto gli sembrava grande. Si sposa. Per taluni la felicità non ha gambe lunghe. Ovvero, si trasforma in una promessa più bella, quella eterna. Ovvero, ancora, in una promessa diversa per un appuntamento più glorioso. In un Altrove, dove i buoni e quanti amano veramente, si ritroveranno. Mastro Ciccio ha perso presto il suo amore per sempre e, nella solitudine non cercata, ha atteso di rivederlo. E così è andato via, esattamente come ha vissuto. Da solo, senza fare rumore. Senza disperarsi o chiedere a qualcuno alcunché. E, se posso dirlo, con quella educazione esemplare di cui ha sempre dato prova, come pochi. C’era ad attenderlo, e di questo ne sarà stato certo, la madre e la moglie, che l’hanno preso per mano già nel passaggio.
Forse, non sarà stato casuale che sia andato via nella notte della festa di San Giacomo, il Santo Patrono di Cicala. Il Santo da lui venerato, servito, rispettato. Anche in quella festa d’identità collettiva, in cui lui affidava il valore della tradizione e la grandezza di cuore della sua gente. E di sua mamma. Ciao, Mastro Ciccio, maestro di bontà. Educatore inascoltato. Esempio da vivere.
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