
Secondo Maida, Foti e Rauti gli atti emessi dal concessionario potrebbero essere privi di valore per difetto di legittimazione. La sentenza della Cassazione 7492/2025 e altri precedenti rafforzano il dubbio: “Uffici e amministratori rischiano responsabilità pesantissime”
Gli atti di riscossione coattiva emessi negli ultimi anni dal Comune di Chiaravalle Centrale potrebbero essere addirittura nulli. È questa la tesi, pesantissima, che l’opposizione consiliare – composta da Vito Maida, Claudio Foti e Giuseppe Antonio Rauti – mette nero su bianco dopo aver esaminato una serie di irregolarità nell’affidamento del servizio alla società concessionaria. A sostenere questa posizione non è soltanto un’analisi politica, ma una base giurisprudenziale che, a detta dei tre consiglieri, non lascia spazio a interpretazioni: “Se il concessionario non è stato investito validamente del potere di riscuotere, ogni atto esecutivo da lui emesso è viziato alla radice”.
Al centro della questione c’è soprattutto la recentissima sentenza 7492/2025 della Corte di Cassazione, che l’opposizione presenta come un precedente dirompente. La Suprema Corte ha affermato che l’affidamento della riscossione non è un dettaglio gestionale, ma un atto costitutivo di potere pubblico. Se l’affidamento è illegittimo, l’ingiunzione di pagamento firmata dal concessionario è nulla per difetto di legittimazione: in altre parole, chi non dispone del potere pubblico non può esercitarlo. La Cassazione ha chiarito che il giudice tributario deve verificare come il Comune ha affidato il servizio, se ha seguito la normativa e se il contratto rispecchia gli indirizzi deliberati dal Consiglio. Senza questo presupposto, nessun atto verso il contribuente può considerarsi valido.
Questa linea interpretativa, spiegano Maida, Foti e Rauti, "si incastra perfettamente con il caso di Chiaravalle". Qui l’affidamento della riscossione sarebbe avvenuto con tre atti consecutivi ricorrendo all’istituto dell’affidamento diretto (art,50 comma 1 lett.b) del D.Lgs n.36/2023 - Tale forma di affidamento diretto, pensata per servizi ordinari e a bassa complessità, “è del tutto inadeguata per un’attività che presenta natura autoritativa, incide direttamente su posizioni giuridiche dei contribuenti e richiede il rispetto di rigorose garanzie procedurali e contabili”.
La procedura ipotizzata non è consentita per gli affidamenti di servizi in concessione, ai sensi degli articoli 176 e seguenti del D.Lgs. n. 36/2023 (Parte II – Contratti di concessione, Titolo I – Ambito di applicazione e principi generali). L’affidamento in concessione del servizio di riscossione coattiva dei tributi locali è inoltre soggetto a una disciplina speciale di natura tributaria e finanziaria, che impone in modo tassativo il ricorso a procedure ad evidenza pubblica. Tali norme individuano puntualmente i soggetti abilitati, le modalità di espletamento del servizio e la gestione dei flussi finanziari, escludendo in modo assoluto qualsiasi forma di affidamento diretto o semplificato.
Inoltre, il contratto stipulato sarebbe difforme rispetto alla delibera del Consiglio comunale, che fissava un aggio massimo del 6%. Il contratto firmato, invece, prevederebbe un aggio dell’8%, 5 euro a pratica e il recupero integrale delle spese. Secondo l’opposizione, un quadro simile determina “la nullità del titolo concessorio e, come afferma la Cassazione, la nullità derivata degli atti”.
Il tema non si esaurisce con una sola sentenza. I tre consiglieri ricordano che non mancano precedenti della Corte dei Conti e della stessa Cassazione in cui si afferma che un soggetto privo della qualifica di agente contabile non può maneggiare denaro pubblico né esercitare poteri coercitivi. Tra questi, anche recenti decisioni delle sezioni regionali della magistratura contabile che censurano concessioni irregolari della riscossione e richiamano esplicitamente il rischio di danno erariale. “Quando l’affidamento è viziato – spiegano – la legittimazione del concessionario non sussiste. E tutto ciò che ne deriva è giuridicamente instabile”.
Il punto politico è altrettanto rilevante. Secondo Maida, Foti e Rauti, l’Amministrazione avrebbe “ignorato gli allarmi lanciati per tempo, perseverando in un modello di gestione che, se confermato come illegittimo, esporrebbe il Comune a contenziosi, rimborsi, e soprattutto a responsabilità sia amministrative sia contabili”. “Noi non vogliamo creare allarmismi – precisano – ma mettere davanti ai fatti chi esercita ruoli di governo. La legge è chiara: senza un affine atto di concessione, nessun privato può riscuotere coattivamente tributi pubblici. E se oggi si scopre che quell’atto non era valido, gli uffici e la politica dovranno assumersene la responsabilità”.
La vicenda si inserisce in un clima già teso tra maggioranza e opposizione, ma stavolta la questione supera lo scontro politico: riguarda la validità degli atti, la tutela dei contribuenti e la corretta gestione delle entrate pubbliche. E se la giurisprudenza confermerà i dubbi sollevati, Chiaravalle potrebbe trovarsi di fronte a un caso esplosivo, con ripercussioni non solo amministrative, ma giudiziarie.
“L’ultima parola, ora, spetterà alle autorità di controllo. Ma dopo la sentenza n. 7492/2025 l’interrogativo resta aperto e inquietante: gli atti della riscossione a Chiaravalle sono validi oppure no? - le conclusioni della nota - e alla luce di tutto ciò, adesso i cittadini possono anche comprendere perché il sindaco Donato non abbia voluto – né ritenuto opportuno – convocare il Consiglio comunale, nonostante le reiterate richieste: una scelta che oggi appare ancora più significativa, e che lascia sul tavolo dubbi che non possono più essere elusi”.
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