
di FRANCO CIMINO
Caro Roberto, io e te siamo cresciuti insieme. Abbiamo la stessa età, abbiamo attraversato gli stessi anni e respirato la stessa aria di passioni e di slanci ideali. Non ci siamo mai incontrati davvero, vivendo a mille chilometri di distanza — poi “ridotti” a seicento con il tuo trasferimento a Roma — ma siamo cresciuti insieme lo stesso, uniti da un sentire comune e da un desiderio condiviso: quello di cambiare il mondo.
Erano anni in cui i giovani, pur divisi politicamente o partiticamente, condividevano però un nucleo comune: il sogno di costruire un mondo nuovo. L’utopia possibile, quella che avrebbe trasformato la realtà e dato vita a un’umanità nuova. L’uomo del Vangelo – quello stesso Gesù di cui tu hai parlato ieri sera – ma anche l’uomo delle culture laiche, illuministe, materialiste. Ci univa la volontà, tutta giovanile, di “fare la rivoluzione”, ciascuno secondo il proprio sguardo, ma tutti insieme nella direzione di un ribaltamento degli equilibri di potere.
Siamo cresciuti insieme da quando tu sei stato scoperto e lanciato dalla creatività generosa di Renzo Arbore, che ti rese protagonista della sua fantasmagorica trasmissione “L’altra domenica”. La tua comicità naturale non ci faceva solo ridere: dissacrava i poteri, sdrammatizzava la realtà, ci costringeva a riflettere sulle resistenze al cambiamento.
Poi ci siamo “incontrati” nei cinema, attraverso le tue numerose produzioni. Tutte belle, anche quelle più leggere. Belle persino quando servivano soltanto a farci ridere di cuore. E siamo cresciuti ancora, aggiungendo all’amore per l’arte quello per la cultura, continuando a studiare, a conoscere, a confrontarci con altre idee per rafforzare la nostra sensibilità democratica e la convinzione che la diversità sia la risorsa fondamentale di una società giusta e realmente partecipata.
Il nostro incontro ideale ha trovato il suo vertice con La vita è bella, che rimane un capolavoro non solo di incassi ma di memoria, poesia e umanità. Quel film ti ha reso ricco e famoso, forse – temo – con l’effetto di “chiudere un ciclo”: non so se fu l’esaurimento della tua vena creativa, l’appagamento dopo un successo immenso, o una sorta di destino che ti abbia spinto lontano dal cinema.
Da allora abbiamo atteso un tuo nuovo film all’altezza di quello, magari ancora più profondo nel messaggio politico e culturale. Ma abbiamo atteso invano. Tu hai preso altre strade; io, invece, sono rimasto nel mio campo – la politica – ormai arido, ma pur sempre coltivato con studio e passione, senza alcuna ricompensa materiale, anzi con la fatica della scuola e della scrittura.
Tu hai saputo reinventarti, trasformando la tua arte comica in una forma di divulgazione culturale: la Costituzione, la storia del Risorgimento, i Dieci Comandamenti, l’Europa. Tutti racconti televisivi di grande successo, su Rai 1, in prima serata, per due ore di monologo.
Ieri sera hai aggiunto un nuovo tassello: Pietro, “il migliore amico di Gesù”, il primo degli apostoli, colui al quale Cristo ha consegnato le chiavi della Chiesa e il potere di applicarne le leggi. Ne hai fatto il ritratto di un uomo comune, fragile, contraddittorio, pavido, eppure diventato il più grande tra gli uomini. Riproporlo oggi avrebbe potuto essere un invito a imitarne il cammino umano e spirituale.
Gli ascolti, leggo, sono stati ancora una volta altissimi. Si accompagnano però a critiche numerose, questa volta più severe. Anche io, che ho seguito l’intero monologo senza perdere una parola, superando sonno e stanchezza, mi aggiungo ai critici.
Il format, ormai ripetuto, non mi ha convinto. La mimica, la retorica, le premesse troppo lunghe, la ripetizione dei concetti, gli intercalari nervosi (“ok che meraviglia!”, “ma che bellezza!”, “straordinario!”, “mi fa impazzire!”), quel continuo “no…” e “eh…”, mi hanno annoiato. Ma soprattutto non mi è piaciuta la lezione su Pietro: troppo scolastica, troppo edulcorata, troppo “politicamente corretta”.
Quando poi hai tentato di passare dall’aspetto storico all’insegnamento etico, la retorica non è bastata. Mi è sembrato che ti sforzassi di evitare accuratamente ogni accenno al potere. Non tocchi mai il potere, neppure con l’ironia che una volta ti veniva naturale. Quando il discorso sembrava sfiorare i governanti italiani, cambiava subito direzione, verso Trump o verso l’Europa di Macron e del cancelliere tedesco.
Per questo, da semplice professore di liceo di periferia, da militante di un grande partito oggi dissolto proprio dai poteri che non vuoi toccare, da padre, da cittadino e da credente irregolare ma convinto, ti dico: di Pietro avrebbe fatto meglio a parlarne il Papa, o i sacerdoti, o i fedeli che leggono il Vangelo. O il mio amico don Mimmo, oggi cardinale, che ci direbbe – con la sua parola poetica – che Pietro fu il primo autentico fratello di Gesù, perché per primo comprese che il messaggio cristiano è rivoluzionario. E induce alla rivoluzione. Quella vera, pacifica, che rinnova e trasforma l’uomo. Una rivoluzione che fa degli uomini, uniti, i veri combattenti per la pace, quella autentica, che nasce dalla giustizia e dalla liberazione dei popoli. Questo Pietro, ieri sera, era assente.
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