
di FRANCO CIMINO
Ho ascoltato il discorso del Presidente della Repubblica, pronunciato ieri al Quirinale in occasione del saluto e degli auguri di buon Natale alle diverse autorità nazionali. Come sempre, o quasi sempre, mi sono emozionato e mi sono nuovamente lasciato affascinare dalla sua parola, nutrita di cultura e di sensibilità democratica. E ancora una volta lo ringrazio per le parole che, con coraggio, ha pronunciato su principi etici e politici ormai quasi messi da parte nel mondo politico, e anche all’interno delle istituzioni. In particolare nel Parlamento, divenuto ormai luogo di risse e di aggressioni brutali, di propaganda becera che trasporta l’odio reciproco e l’odio nei confronti dei cosiddetti nemici all’interno della società, avvelenandola dello stesso odioso sentimento.
Ieri Sergio Mattarella si è soffermato sul tema della Democrazia. Dopo una breve premessa sui mali che da tempo affliggono la nostra società, ammalandola gravemente, ha detto due cose apparentemente contraddittorie sulla Democrazia, correggendo soltanto, con l’ottimismo personale con cui ha chiuso questo tema, la durezza della diagnosi. Mattarella ha detto:
«La democrazia è debole quando più della metà degli italiani elettori disertano le urne. Ma la democrazia è più forte e non sarà sconfitta».
Grazie, Sergio Mattarella. Il tuo pensiero è ancora una volta un monito a non distrarci sulla questione più importante: la salute della democrazia italiana. E delle sue istituzioni. E fai bene, Presidente, quando continui a essere maestro, diffondendo la tua lezione in questa antica scuola del diritto e dei diritti che ha smarrito, anzi distrutto, la cattedra. Quando i maestri se ne vanno, per stanchezza o perché sono stati cacciati, non potranno mai esserci allievi che apprendano; per cui quella stagione dei “diritti e dei doveri” di cui parlava Aldo Moro, e quella della “democrazia che educa all’amore, in quella politica che è spirito di servizio esercitato nelle forme più alte”, di cui parlava De Gasperi, rischiano di restare parole vane. Idee sconfitte.
Specialmente in quest’epoca in cui il diritto, le leggi, le stesse Costituzioni dei Paesi democratici vengono trattate come carta straccia da chi, con la forza autoritaria della propria violenta personalità, le smentisce nell’azione politica quotidiana. È vero, amico Presidente, che la Democrazia si indebolisce quando le urne si svuotano. Si indebolisce non solo per la progressiva assenza della tensione morale dei singoli cittadini e dell’intera comunità, che è energia vitale per il sistema democratico. Si indebolisce, a grave rischio della sua tenuta, perché il 46% dei votanti, nella distribuzione proporzionale dei seggi, assegna il governo del Paese, e quindi la gestione dei meccanismi più delicati del potere, a una piccola minoranza.
È del tutto evidente che, quando ciò accade, la Democrazia si è già indebolita. E si è indebolita in un aspetto ancora più preoccupante: la sua progressiva deformazione attraverso successivi passaggi apparentemente indolori. Passaggi, che produrranno la nascita di nuove forme di organizzazione dello Stato e della politica, che già altrove si stanno affermando, come accadrà a breve anche negli Stati Uniti d’America, sotto nomi apparentemente suggestivi come autocrazia, democratura. E altri ancora che verranno inventati, magari più leggeri ed eleganti.
Questa nuova cultura che si sta affermando, non solo non ha bisogno della partecipazione al voto, ma la scoraggia. E, attraverso la riduzione degli spazi della discussione, cancellerà progressivamente il dibattito e anche la contrapposizione fra le parti, che è l’anima della della società democratica. Quando una minoranza prende il potere, prende tutto. Prende soprattutto gli strumenti più potenti per portare a compimento questo processo pericoloso, nell’attuazione di un progetto che ha radici antiche e dinamiche moderne. Ci si appropria, via via, degli strumenti della comunicazione. Specialmente quelli che, con la tecnologia moderna e più avanzata, entrano in ogni casa, in ogni scuola, in ogni chiesa, in ogni aula universitaria e, secondo dopo secondo, nella testa delle persone, in particolare nei ragazzi e negli adolescenti.
Un bombardamento di pensiero unico che, nello spazio di pochi anni — anni che sono già iniziati — “educherà” le future generazioni alla nuova e unica ideologia del governo delle società e delle istituzioni. E all’idea che l’unico potere vero, quindi il più forte, sia quello dell’economia e dei potenti che la gestiscono in nome dei propri interessi. Lasciando alla politica e alle istituzioni il compito di affermare il nuovo-vecchio principio secondo cui la giustizia consisterebbe in un’innaturale distribuzione delle risorse, per cui la ricchezza diventa un diritto di chi se ne appropria in quanto” capace, intelligente, creativo e geniale”, secondo loro.
Da questo principio discenderà non solo la divisione delle classi nella forma più violenta che la storia umana abbia conosciuto, ma addirittura la divisione fra gli esseri umani in quanto tali. Pertanto, non solo è giustificata la ricchezza ingorda, ma persino la povertà, di cui paradossalmente quella ricchezza si serve per accrescersi. Tutto questo sta già avvenendo. Le guerre che nascono come funghi, si diffondono, non cessano, sono strumenti di questa ideologia. Non averlo capito è già segno che questa becera nuova cultura si sta affermando.
No, purtroppo la Democrazia non è più forte di qualsiasi altra sua contrapposizione. I suoi nemici, caro Presidente, sono già più forti, e la storia — che ne ha visti altri all’opera — ce lo insegna. Se non nascerà, se non rinascerà una nuova resistenza, morale prima che politica; una resistenza che sia anche psicologica rispetto alle forti pressioni di questa propaganda monocolore; se non si attiverà una nuova coscienza democratica, capace di avvertire il pericolo che stiamo correndo; se gli uomini di buona volontà, che ancora ci sono in tutti i Paesi e anche nel nostro non si sveglieranno ; se gli intellettuali, smettendo di fare la corte ai potenti per vedersi pubblicare i libri e ottenere ben pagate apparizioni nei salotti televisivi, non torneranno a essere maestri; se i genitori non riporranno le pantofole nella scarpiera, la pigrizia sotto il letto e la responsabilità crescente nell’ultimo stipo; se preti e religiosi non lasceranno le comode parrocchie per mettersi sulla strada alla ricerca delle persone; se la scuola e chi vi lavora non si apriranno davvero alla società e non inizieranno a parlarle con coraggio, lasciando, quando necessario e urgente, i libri di testo, i registri elettronici e quelle lunghe programmazioni del nulla; se i dirigenti scolastici non smetteranno di scimmiottare i capi autoritari; se i pochi editori veri rimasti non smetteranno di inseguire soltanto l’utile nella vendita dei giornali che non si vendono più e non supereranno la tentazione di chiuderli tutti, specialmente quelli cartacei, e non si sforzeranno invece di pubblicarli ancora, anche su carta, e per un tempo breve anche rimettendoci denaro, abbassandone il costo; e se, e se, e se, e altro ancora che qui non ripropongo, la Democrazia— questa nostra Democrazia— finirà. Diventerà un’altra cosa: il suo esatto contrario.
Il nostro Presidente sa, per essere stato anche lui protagonista di quella resistenza diffusa nelle piazze che hanno contrastato il terrorismo rosso e nero, e che, con le manifestazioni di lavoratori, studenti, intellettuali e politici seri, ha respinto il rigurgito neofascista e i diversi tentativi di golpe, che la nostra Democrazia , anche per questo, è stanca. Stanca e anche debole per il fatto che, negli ultimi trent’anni, tanti autentici democratici e resistenti sono andati via da questo mondo. E quei pochi rimasti di quei due grandi e straordinari momenti della storia — il ’68 e il ’78 — sono avanti con l’età e pesanti nelle gambe. E tanto anche delusi e scoraggiati.
Ma la nostra Democrazia potrà ancora salvarsi? È la domanda che continuo a pormi. Sempre più turbato e preoccupato. Tuttavia, la mia risposta è ancora questa: sì, potrà salvarsi se nasceranno nuovi resistenti. E se essi, anche a rischio della propria salute — per non dire della propria vita —, a costo della rovina della propria sonnecchiante serenità, scenderanno in piazza. Prima da soli, poi con altri e poi con altri ancora, e si batteranno per la ricostituzione dei valori e delle fondamenta del sistema politico più bello del mondo, il nostro.
Si badi: non più una semplice difesa, che sarebbe poca cosa rispetto a ciò che della di esso è rimasto. Ma una lotta per la ricostruzione del valore inalienabile della Democrazia, della sua impalcatura, della sua straordinaria idea di libertà che — amo sempre ripetere — si libera mentre libera sé stessa e gli altri.
Quanto alle piazze di cui ho parlato, esse possono essere qualsiasi luogo, anche il più piccolo, in cui le persone, anche poche, si incontrano per dibattere liberamente, trovare punti comuni di incontro e poi camminare insieme, mano nella mano, quale esercito più bello possa esistere. Quello senza armi, se non le più potenti del disarmo: le idee di libertà e di progresso.
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