di FRANCO CIMINO
Si è sentito un fremito d’inverno in questa primavera ferma al sole del cielo celeste limpido. L’aria frizzava di fresco.
Si è sentito il venerdì di una domenica ingannata. Da una promessa bugiarda.
Si è sentito il silenzio muto nella piazza invasa di persone.
Di ragazzi e bambini.
Di madri e padri piegati da un dolore anche il loro. Dolore di padri e madri.
Il din don rauco di una campana ferita, contrappeso al campanile che si rompeva.
E a tratti si reggeva.
Su quel dolore si reggeva. Le rose bianche e rosse, due in ogni mano dei bambini, avevano perso il profumo e, smunto il loro colore, si negavano alla luce di questo giorno. Dietro di loro le insegnanti e a un passo ancora le madri di ciascuno.
A sostenerne il pianto, a trattenerli al loro petto perché non si allontanassero neppure di uno sguardo.
C’erano due fasce tricolori intorno al petto di un ragazzo e di un uomo adulto, a rappresentare la Città bella e dolente.
E la Scuola tutta intera.
Le parole dei suoi compagni, in Chiesa, a fare lezione d’umanità parlando di lui.
Gli applausi della folla che si frantumavano tra le stesse mani dei bambini, dei cittadini dei padri e delle madri.
E c’ero anch’io, venuto dalla Città grande e capitale, che non sapevo più cosa fossi, se un prof, un padre, un tavernese, un uomo .
E che ci facessi lì, se poi domani sarò altrove, lontano da quel dolore.
E da quei volti.
Di quel padre.
Di quella madre.
E di quel fratello.
Già rimasti soli.
Ché la vita continua, si dice.
E il mondo gira.
Franco Cimino
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