di FRANCO CIMINO
L’altra notte lo schianto. Un camion, bloccato sui binari, veniva investito in pieno da un treno passeggeri, con solo dieci persone a bordo. Tutta povera gente, ché altrimenti chi vi salirebbe su quelle caffettiere che s’azzardano pure a far “ volare” come una Ferrari su una linea vecchia e precaria quanto la strada statale, la famigerata 106, che le cammina a fianco lungo lo stesso percorso. È una tragedia. Rottami e fiamme. Grida che squarciano il cielo scuro della notte in arrivo più puntuale del treno. Muoiono in due, una donna e un uomo. Lei sessant’anni, madre di una donna “ emigrata” al nord per fare il suo stesso lavoro. Lui, poco più che un ragazzo, appena ventidue anni. Lei, dipendente da trent’anni delle Ferrovie, oggi Trenitalia, lui di una ditta privata, forse soltanto da tre sei o trenta giorni, chissà. Ambedue impegnati nel settore dei trasporti. Lei quello dei passeggeri. Lui di merci. Entrambi erano capi del loro mezzo. Lei capotreno, lui solitario capo del mezzo pesante. I due erano meridionali del più basso Sud del mondo, in tutti i sensi considerato. Lei calabrese fin dentro l’anima, lui marocchino fino al midollo. Il destino, ma di più il sistema che ordina la vita delle persone, hanno voluto che si incontrassero senza essersi mai conosciuti e che, straniero l’una all’altro, condividessero la stessa fine. I loro nomi sono anche della cultura del loro Sud. Maria e Said. Nomi comuni, che certamente hanno rinnovato quelli di nonni e genitori, come vuole un’antica tradizione del Sud per segnare il rispetto che si deve ai padri e alle madri. E quello che si porta alla madre di tutto, la terra delle più profonde radici. Il camion non si è detto da dove venisse e dove andasse. Il treno era da poco partito per la tratta ferroviaria Corigliano( Sibari)-Catanzaro Lido. Sì, Catanzaro Lido. Da quando hanno incominciato a viaggiare i treni su questa linea, la nostra stazione si chiama così. Inizialmente, molto più di mezzo secolo fa, forse anche Catanzaro Marina. A soli otto chilometri, salendo sulla destra, a lato di quella della vecchia Calabrolucana, si arrivava, da tempo non più, alla stazione centrale di Catanzaro. Anche questa chiamata con la parola tutta intera, della sua denominazione più antica, CatanzaroSala. Due stazioni piccole, allora pure anguste, poco illuminate e per nulla confortevoli, sempre strapiene di gente, con gli accompagnatori assai più numerosi di chi prendeva il treno per andare “ molto lontano”. In quella vecchia Italia delle distanze abissali e delle lontananze enormi. Da quella di Marina, poi, autentico crocevia del “ mondo” nuovo, si andava, tra cambi e attese, in tutte le direzioni. A “ Sant’Eufemia Lamezia, innanzitutto, per prendere i treni che portano al Nord. E, poi, lungo quella stessa linea, che Maria percorreva spesso, verso il basso reggino. Linea che si ferma a Bianco, la stazione che collega ancora la grande Reggio al quadrangolo dell’ancora sconosciuta area grecanica. Questa linea su cui negli ultimi anni sono piovute più promesse che soldi, più progetti che sensi di colpe, e, dopo il tragico incidente dell’altro ieri, anche i cinquecento milioni del Ministro Salvini per metterla almeno in sicurezza( ma se i soldi erano così pronti alla cassa, perché non impiegarli prima?), è da sempre stata il sogno degli idealisti e dei sognatori della Calabria nuova. Tra questi, anch’io incorreggibilmente. Il treno della Magna Graecia. Un percorso moderno ed efficiente che avrebbe collegato tutti i paesi che, affacciati sullo stesso mare, hanno dato vita, qui, in Calabria, all’antica civiltà greca. Dalla punta dello Stetto fino a Sibari. E da lì nella Taranto della stessa storia e cultura. Forse, stante alle dichiarazioni e agli impegni della politica, ci si è tutti convinti di questo. E la grande idea, forse, sta facendosi strada per come l’abbiamo pensata. Forse, i soldi stanziati per il progetto di una nuova rete ferroviaria lungo quel tragitto, saranno tutti impegnati e quelli mancanti arriveranno. Forse, i tempi questa volta non saranno biblici. Forse, i nostri figli, questa nuova ferrovia ionica la vedranno realizzata. Forse, da noi questo avverbio è d’obbligo sempre. Ma ci è gradito comunque, perché sostituendo il “ mai” oppure il più esteso “ ma ci criditi vui?” , indica il movimento. Il primo passo cui potrebbero seguirne tanti. Magari, fino all’ultimo. Quello necessario e finale. Questa linea, pensata e sognata, non sarebbe stata solo lo strumento per far ricca la Regione, attraverso la crescita di un turismo vero e produttivo, annuale e non stagionale. Avrebbe reso di più. In ogni ambito. Pure civile ed economico. Avrebbe potuto rappresentare la linea parallela a quel progetto fondamentale che avrebbe messo insieme sicurezza e ricchezza. Da subito riducendo, fino a quando l’altra linea parallela non sarebbe stata pienamente realizzata, il lungo elenco dei morti e degli invalidi che ancora scrive la criminale 106, la strada della morte, che ancora morte semina lungo il suo stesso “ itinerario”. Forse (qui l’avverbio è più che un dubbio o la premessa alla domanda che non ci facciamo spesso), tante centinaia di vittime sarebbero state risparmiate, se avessimo avuto anche la sola linea ferrata al sicuro. Non dico i treni e le carrozze tanto ambite o il tempo di percorrenza ridotto della metá( quasi due ore per Catanzaro Lido-Corigliano, sono tante) ma solo una via più sicura. Tanti di noi, e molti di più tra le vittime della Statale, avrebbero preso il treno invece che l’auto. In questo “ forse” si muovono però alcune certezze. La prima, Maria sognava la stessa cosa. E di più, conoscendo alla perfezione tutti quei quasi trecento chilometri di quella linea, ne immaginava la grande potenzialità. La seconda, Said probabilmente questa bellezza l’aveva intuita. Terzo, Maria, con la sua intelligenza e sensibilità, sapeva che molto di noi e del nostro futuro sarebbero dipeso dalla capacità dei calabresi di unirsi per un progetto di crescita complessiva della Calabria. L’ultima certezza, che vince la retorica di ogni tipo e la commozione d’occasione e le parole vuote cancella, è tutto ciò che si potrebbe dire di questa ragazza, la nostra Maria. La fa ragazza, intanto, quel suo corpo e quel suo viso davvero fanciulli. E quel sorriso, carico anche di buona ironia, sempre stampato sul volto. La fa ragazza, quel suo essere “ marinota”, quindi tutta famiglia. Figlia, lei dei suoi genitori, in particolare della madre, e figlia per l’amore della propria, l’unica che ha. Marinota, quindi, mare e sole. E lungomare. E amici e parenti, numerosi. Oggi, ci saranno i suoi funerali. Nella sua chiesa di Giovino. Ci saranno tutti. E per lei. Non, come capita nell’accesa emotività popolare, per la morte prematura, causata da una inaccettabile disgrazia. No, ci andranno per lei. Per il dolore che ha scatenato la sua scomparsa. Un dolore esteso. Cittadino davvero. Giusta, pertanto, risulta la decisone della giornata di lutto istituzionalmente fissato per la giornata odierna. Io sono particolarmente colpito, oltre che da quel vortice di emozioni e sentimenti, da una sua foto che ha fatto il giro del web. La rappresenta quasi interamente. Maria, vestita della divisa da ferroviere, è seduta, spalle al mare, sul muretto del lungomare. Si trova quasi all’inizio dello stesso, per aver vissuto lungamente da bambina-ragazza da quelle parti, dove ha abitato la mamma in casa dei nonni. Le due zii e lo zio prima di “ emigrare” giovanissimo. Ecco Maria, donna piena. Di passioni. Di doveri. Piena d’amore. Per il lavoro, per la famiglia, per il luogo. Per la vita.
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