Scarcerato. Il Tribunale della libertà ha accolto il ricorso presentato dagli avvocati Saverio Loiero e Vittoria Aversa e ha rimesso in libertà Roberto Corapi, coinvolto nell'inchiesta Clean Money, coordinata dalla Dda di Catanzaro, quando a febbraio scorso ventidue persone sono state arrestate, di cui 12 in carcere e 10 ai domiciliari. Secondo le accuse Corapi una volta uscito dal carcere ribadiva la sua operatività nel clan e faceva valere il suo peso criminale per risolvere liti.
L'INCHIESTA
Le ipotesi di reato vanno dall'“associazione di tipo mafioso”,all' “estorsione”, alla “rapina”, “usura”, “lesioni personali”, “truffa”. Reati anche aggravati dalle finalità e/o modalità mafiose, formulate dai sostituti procuratori Veronica Calcagno e Rizza e avallate dal gip Gilda Danila Romano che, ha febbraio ha portato i Carabinieri del Comando Provinciale di Catanzaro, a dare esecuzione a un provvedimento cautelare e nei confronti di 22 indagati (12 in carcere, 10 agli arresti domiciliari con braccialetto elettronico) .
Le truffe dei "gaglianesi" alle imprese del nord
Le truffe ruotavano intorno alla costituzione di una società, la Alipadania srl, sede in Borgo Ticino, provincia di Novara. Era attraverso questa che erano stati avviati reali e fattivi rapporti commerciali con varie ditte, finché, dopo aver trattenuto un ingente quantitativo di merce consegnata dai vari fornitori, venivano interrotti i pagamenti e si portava strumentalmente e fraudolentemente la società al fallimento.
“Se la visione degli atti potrebbe far ipotizzare una mera ipotesi di crisi imprenditoriale rilevante sul piano civilistico contrattuale, con le dovute ricadute sul piano imprenditoriale – scrive il gip Gilda Romano - la valutazione dell’operato degli indagati dalla genesi della società e dalla delineazione poi della concreta attività imprenditoriale porta a scartare l’ipotesi di una crisi economica come fondamento di quanto accaduto e a riportare al giusto significato le sorti della Alipadania e dei rapporti avviati”. "È risultato chiaro – spiega il giudice - che è stata concepita la costituzione di “una società vuota e fittizia, pensando a chi potesse rivestire la carica formale di una articolata realtà di impresa, per poi individuare il settore di azione, ovvero l'apertura di un supermercato che fungesse da soggetto giuridico ordinante i beni di più disparata varietà, che venivano poi trasportati in Calabria e reimmessi in vendita nelle loro aziende, destreggiandosi fra fatturazioni pilotate, pagamenti posticipati, poi mai effettuati, e poi sviando le richieste dei pagamenti ai primi ritardi”.
Il colpo in banca fallito: la banda non seppe usare il badge
Tra gli episodi ricostruiti nella corposa indagine della Dda di Catanzaro ritenute affiliate al clan dei Gaglianesi figura un singolare episodio che risale al novembre 2014, il disastroso tentativo di rapina attuato da alcuni sodali della cosca ai danni della sede catanzarese della Banca Carime. Rapina che sarebbe stata autorizzata dal boss Lorenzo Iiritano al quale, poi, sarebbe spettato dividere il bottino. In quel frangente due uomini con il volto travisato da caschi avevano tentato di accedere nella sede dell’istituto di credito utilizzando il badge di un impiegato loro complice. I due maldestri rapinatori, tuttavia, non si erano accorti di aver inserito nel verso sbagliato il tesserino magnetico nell’apposito congegno elettronico, ragione per cui la porta d’ingresso non si era aperta. A quel punto i malviventi avevano preferito darsi alla fuga.
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