
Di M. CLAUDIA CONIDI RIDOLA*
Scrivo questo articolo con la consapevolezza di chi, negli anni, ha seguito processi di mafia e ha affiancato vittime di estorsioni, imprenditori distrutti, famiglie che hanno perso tutto. Conosco bene non solo la violenza mafiosa, ma anche quella più silenziosa e subdola: la lentezza della giustizia. In Italia esiste un paradosso che pochi conoscono: mentre lo Stato, per fortuna, è molto rapido nel sequestrare e confiscare i beni ai mafiosi, le vittime dei reati mafiosi sono costrette ad aspettare anni, spesso decenni, prima che una sentenza riconosca in modo definitivo il loro diritto al risarcimento. E, quando finalmente quella sentenza arriva, troppo spesso non c’è più nulla da riscuotere, perché il patrimonio confiscato è già stato destinato altrove. Lo Stato arriva prima, la vittima arriva dopo. E chi arriva dopo, nel nostro sistema, resta fuori.
Per far capire a chi non conosce questo mondo, uso un esempio reale nella sua struttura, ma comune a migliaia di storie simili. Immaginate un imprenditore siciliano, una piccola azienda familiare, la tipografia aperta dal padre negli anni ’70. Per trent’anni paga il pizzo. Paga perché “o paghi, o chiudi”. Poi le richieste aumentano, le macchine si rompono, gli ordini non bastano a sostenere i debiti. Alla fine fallisce. Non perché fosse incompetente, non perché non sapesse lavorare, ma perché la mafia gli ha mangiato l’anima e il capitale, un colpo dopo l’altro. Quando decide di denunciare, il suo mondo è già crollato. I beni di chi lo ha estorto vengono sequestrati subito dallo Stato. È un segnale forte, importante, ed è giusto così. Ma il suo processo civile per ottenere il risarcimento, invece, dura anni. L’udienza si rinvia, poi il giudice cambia, poi un perito ritarda la relazione, poi la causa si incaglia in un dettaglio procedurale. Passa talmente tanto tempo che, quando finalmente arriva una sentenza che riconosce il suo diritto al risarcimento, quelle proprietà non esistono più. Sono state confiscate, assegnate, utilizzate per finalità sociali. Tutto corretto, in teoria. Ma non per chi ha subito il danno.
A quel punto l’imprenditore deve rivolgersi alla legge specifica per le vittime dei reati mafiosi, quella che prevede un indennizzo straordinario da chiedere al Ministero. Un percorso che conosco bene, perché ho visto persone distrutte moralmente ed economicamente affrontarlo con la speranza di ottenere almeno una parte di ciò che hanno perso. Lì però inizia un altro calvario: domande, moduli, documenti, verifiche, richieste di integrazioni, audizioni. Procedure farraginose, lente, che scoraggerebbero chiunque. E soprattutto un tetto massimo di risarcimento che, in molti casi, non copre minimamente ciò che è stato perso. Come si può dire a qualcuno che ha visto la sua azienda fallire a causa del pizzo che può ottenere al massimo una cifra “standard”, e comunque dopo anni di istruttoria? È una ferita che si aggiunge alla ferita.
Ho visto vittime passare attraverso tre gradi di giudizio, vincere, poi perdere, poi vedere la causa tornare indietro, poi risalire in Cassazione, poi ridiscendere ancora. Ho visto persone che hanno combattuto due volte: contro la mafia e contro il sistema giudiziario. E in quell’attesa infinita, mentre gli atti viaggiavano per tribunali, le loro speranze di un risarcimento equo si spegnevano lentamente. Nel frattempo, tutto ciò che lo Stato aveva sequestrato alla mafia era già stato destinato altrove. Anche quando si insisteva per ottenere un posto nel passivo, era troppo tardi.
Proprio per questo la recente sentenza della Cassazione ha suscitato grande attenzione. Le Sezioni Unite, con coraggio, hanno affermato un principio importante: il credito della vittima può essere riconosciuto anche quando la sentenza che accerta il danno arriva dopo il sequestro. È un’apertura, un tentativo chiaro di evitare almeno alcune delle ingiustizie più evidenti. Ma la Cassazione, giustamente, non può fare ciò che spetterebbe al legislatore. Non può riscrivere le regole. Può solo applicarle. E se le regole hanno dei buchi, delle zone grigie, delle lacune strutturali, la giurisprudenza può soltanto arrangiare delle soluzioni tampone, non trasformare un sistema che nasce sbilanciato.
E il sistema nasce sbilanciato, perché non mette al centro le vittime. La confisca antimafia è potente, utile, necessaria. Il riuso sociale è un valore. Ma manca una cosa fondamentale: una corsia privilegiata che garantisca alle vittime di mafia di essere risarcite prima di qualunque altro utilizzo del patrimonio confiscato. Manca una legge che dica chiaramente che ciò che è stato sottratto ai mafiosi deve andare, prima di tutto, a chi dai mafiosi è stato danneggiato. Manca un meccanismo che protegga i crediti delle vittime dal rischio che la lentezza giudiziaria li renda inutili. Finché queste mancanze non saranno colmate, continueremo ad assistere allo stesso paradosso: lo Stato che corre, le vittime che arrancano, e la giustizia che arriva sempre un minuto dopo. Una legge così non merita di essere semplicemente applicata. Merita di essere profondamente riformata.
*Avvocato
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