di ENRICO FRATTO
Dall'inizio di questa epidemia, ho letto innumerevoli lezioni sulla inadeguatezza di tutto ciò che è calabrese; il web è pieno di retoriche secolari su un popolo senza diritti e senza servizi, sempre care a giornalismi nostrani e nazionali, non altrettanto spesso attenti a depurare le loro disamine da grossolane lacune in fatto di esattezza. Dall'altro lato, ho avuto modo di constatare, tra le tante cose che si sono scritte, l'esistenza di alcuni attacchi alla Calabria che mi sono parsi, alternativamente, sostenuti da più o meno espliciti pregiudizi territoriali o spolverati di un velo di delirio nichilista.
In mezzo, i professionisti della salute che si stanno facendo in quattro per garantire assistenza di livello a chi sta male.
I calabresi decidano che cosa fare. Negare la profondità delle nostre difficoltà è profondamente dannoso, esattamente come innamorarsi della narrazione di noi stessi dentro la quale, in molti, siamo abituati a sguazzare.
E' perfettamente noto, da decenni, che la Calabria sia indietro rispetto a molta parte del mondo, che le manchino cose che altri hanno, che sia lontana, in molti settori. È diventato un requiem insopportabile, che piace a molti e non serve nessuno. Non c'è nemmeno più niente di interessante nella denuncia quotidiana di una realtà che ormai tutti conoscono come le loro tasche, migliaia di volte sponda a ogni tipo di analisi sui mali di questa terra. Siamo in difficoltà, in grande difficoltà, e non è una difficoltà sanitaria, è una difficoltà totale, che riguarda tutti gli aspetti della vita sociale calabrese.
Lo abbiamo capito, e adesso basta continuare a ripetercelo ogni ora, ogni minuto, ogni secondo, come se non esistesse altro da dire. Quale è il programma, continuare a tenere conferenze sui nostri mali? Non c'è ricetta diversa dal mettersi a lavorare e uscire da questa fittizia prigione di incapacità, smetterla di ragionare come se si fosse maledetti, smetterla di ritenersi subordinati ad aiuti esterni. Certamente, in una famiglia i figli deboli hanno bisogno di più attenzione, e qui questa attenzione dello stato, spesso, è mancata.
Ciò non giustifica il fatto di restare seduti sulla riva del fiume, in attesa del proprio cadavere, accontentandosi di essere subalterni per sempre e accettando questa chiarissima dimensione di inadeguatezza. Crescere è possibile, e chi non ci crede, chi non lo vuole dovrà farselo piacere. Crescere è possibile, ma dipende dall'acquisizione di consapevolezza civica, che possa innescare il bisogno di trasformare questo sentimento di vuoto in opere materiali, in possibilità sociali.
Crescere è possibile, ma non abbiamo più tempo di lamentarci della pioggia che ci bagna. È ora di aprire l'ombrello.
*Studente di Medicina all'Università
Magna Graecia di Catanzaro
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