A poche ore dall’allarme Covid manifestatosi alle nostre latitudini, in via preliminare esprimo tutta la mia indignazione verso i responsabili del comportamento che ha causato l’attuale stato di cose. Sono da sempre un cultore della democrazia, nella sua accezione più nobile, legata cioè a quel “governo del popolo” – démos e kràtos –, inerente alla responsabilità che un insieme di consociati dovrebbe avere. Essere parte di una comunità organizzata a Stato implica, evidentemente, la condivisione consapevole di diritti e obblighi, necessari per l’esplicazione di un vivere civile. Così è da sempre, già dai tempi in cui la condivisione dell’agorà, nell’antica Grecia, rappresentava il momento di emersione della manifestazione collettiva del vivere consociativo. Ma senza scomodare riferimenti arcaici, direi che una comunità moderna del terzo millennio, completamente immersa in un mondo digitale e globalizzato, dovrebbe avere la maturità sufficiente per cogliere il senso di necessità di una serie di comportamenti elementari, ineludibili nell’affrontare le sfide e le difficoltà attuali. A prescindere dalla fondamentale esistenza della legge, nel solco di un profilo etico e di una morale condivisa. Non occorre l’atto normativo supremo per guidare le nostre coscienze. Ma, stante alcuni risultati, c’è da desumere che così non è.
Venendo al caso relativo all’allarme Covid, che si è verificato a Soverato nelle ultime ore, preciso da subito, a scanso di equivoci, che non giudico nel modo più categorico il comportamento del giovane in questione (non potrei non conoscendo i dettagli del caso), ma mi riferisco alle poche limitazioni rimaste fino ad ora in vigore (uso della mascherina e poco altro), di cui ben pochi hanno rispetto. Potrei riassumere il tutto con un proverbio secondo cui, “chi è causa del suo mal pianga se stesso”, se non fosse che, come spesso succede, le ricadute di determinate azioni si riverberano su tutta la collettività. Senza salvaguardare, quindi, coloro che si comportano in modo moralmente ineccepibile. Con il rischio di decretare il fallimento sociale, prima che economico, di interi territori. E allora, giungendo al nodo, non posso sottacere che, accanto alla responsabilità della classe governante, che ha certamente precise responsabilità decisionali, vedo, con limpidità, una responsabilità dei soggetti governati. Una volta tanto, in questa sede, mi concentro su questi ultimi e dico, pertanto, che, purtroppo, abbiamo bisogno delle maniere forti, non essendo capaci di autodeterminarci saggiamente. Come si è verificato in passato per alcune emergenze, abbiamo la necessità di un controllo capillare dei nostri comportamenti, al limite (lo affermo con profondo rammarico) della dittatura. Non siamo capaci di riflettere profondamente, su ciò che possono essere le conseguenze di comportamenti dissennati, dettati solo dall’egoismo più infimo, assolutamente disgiunto dalla responsabilità verso chi ci sta accanto. A tale proposito, mi rivolgo ai giovani, prima ancora che alle persone della mia età. Come è possibile non comprendere l’importanza di un modello comportamentale basico, improntato all’attenzione sui doveri, prima che dei diritti, nel momento in cui abbiamo subìto determinate conseguenze che hanno (giustamente) minato la nostra sfera di azione quotidiana, oltre che l’assetto socio-economico di una intera Nazione? Mi riferisco, evidentemente, a soggetti ormai dotati di mezzi una volta impensabili, quantum alla possibilità di “reperire” elementi di conoscenza, di raggiungere la consapevolezza dei rischi che si annidano nella dissennatezza comportamentale, di valutare le conseguenze pregiudizievoli nei confronti del regolare svolgimento della vita di relazione a tutti i livelli, a partire dall’aspetto formativo-culturale. Nei mesi scorsi, un lockdown, tanto rigoroso quanto necessario, ha causato la paralisi di tutte le attività, con conseguenze indicibili solo alcuni mesi prima. A partire dal crollo del PIL di oltre il 12%, che produce un rallentamento e una crisi economica quasi senza precedenti. Ma, il punto maggiormente dolente, sono state le oltre 35000 vittime registrate in Italia, per rimanere nell’ambito di un recinto domestico, che, già sole, dovrebbero indurre ad una riflessione profonda, commisurata alla falsa necessità di soddisfare interessi secondari, come l’attivazione di circuiti di svago e di divertimento, certamente lontani dalle vere esigenze del momento attuale. Chiamo in causa il modello di società di questi tempi, con una responsabilità endemica del nucleo principale che accoglie il sorgere della nostra vita, cioè la famiglia. Sono consapevole della complessità dell’argomento, ma indagini sociologiche, ormai, chiariscono in modo netto ciò che, forse inconsapevolmente, abbiamo creato. Al di là, dunque, della salute dei cittadini, bene ovviamente supremo, vorrei che fosse chiaro che, una ipotetica nuova chiusura di tutte le attività, del tipo di quella già subita nei mesi scorsi, determinerebbe il fallimento di intere categorie di lavoratori, producendo, sia chiaro mai che succeda, conseguenze ferali per tutti noi. Si badi, nessuno escluso. Tutto ciò esposto, non vorrei che avessimo bisogno della presenza delle forze dell’ordine in modo capillare, una sorta di operazione “vespri siciliani”, che decretò la lotta dello Stato al fenomeno mafioso alcuni decenni fa. Certamente rifuggo da sempre, in modo incondizionato, da un controllo penetrante e da una sorta di ipotetico Stato di polizia, ma la scarsa maturità di larga parte dei cittadini può dare luogo a situazioni di estrema gravità. E’ bene acquisire determinate consapevolezze.
Non possiamo permetterci di sbagliare. Men che meno, se lo può permettere la nostra Calabria, terra che sconta ritardi sociali atavici e purtroppo consolidati. C’è in gioco il futuro dei nostri figli, c’è in gioco il futuro di tutti noi.
Francesco Bianco
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