di DOMENICO BILOTTI
Una giovane donna in attesa è uccisa dal suo compagno: questi corre dall’amante e la sua smania spasmodica induce la seconda a rifugiarsi in casa.
Un servitore dello Stato, un uomo in divisa, spara una collega e si suicida: i due avevano condiviso turni, forse attenzioni, ma quel rapporto pare fosse chiuso.
Una ragazza in Polonia tiene nel grembo per settimane un figlio morto: ormai di cinque mesi, non riesce ad espellerlo diversamente. Il povero feto necrotizzato avvelena il sangue della donna che avrebbe voluto dargli la vita: i medici non intervengono. Non rischiano di essere perseguiti per aborto: reato in Polonia e con pene non lievi, soprattutto per gli esercenti professioni medico-sanitarie.
Uno storico cinema milanese, tempio della cultura pop nel centro della città che non dorme, la Capitale morale, chiude i battenti. Gli azionisti rassicurano: sorgerà un centro commerciale.
Ora: quattro notizie che più diverse non potrebbero essere. Le prime due ci dimostrano che la violenza contro le donne, in special modo nei rapporti coniugali che gli uomini non chiudono o da cui vengono respinti, è un morbo neanche così silenzioso: il bubbone mortale è latente, ma la sintomatologia è ricca e disastrosa. Né serve invocare la ghigliottina per i carnefici: essi talora provvedono da sé, ma è evidente che la deterrenza non basti. Anzi: indifferente o controproducente. C’è un lavoro immenso, sano, possibile, di prevenzione culturale e sociale che pochi hanno voglia o tempo o mezzi o intenzioni di mettere in atto. Il terzo caso è l’ossessione dell’integralismo nella sua variante peggiore: nel nome del contrasto a una pratica religiosamente esecrabile, se ne produce un’altra umanamente, moralmente e civilmente ancora più grave. I diritti di libertà in campo medico e l’esercizio delle libertà politiche sono due facce della stessa medaglia. Se li separi, periscono entrambi: voti sempre meno liberi producono società e individui sempre meno liberi. La giovane polacca non pretendeva la trasformazione di nessun desiderio in diritto – la formula riassuntiva degli agitatori per la tradizione contro ogni tentativo individuale di articolare la cura, la scelta, la sopravvivenza. Mi è capitato di dirlo recentemente a un congresso: non ho una posizione interiormente favorevole alla surrogazione di maternità, in special modo quella commerciale (che è una delle voci di un più largo fenomeno di dumping e violazione di diritti civili). Eppure: non riesco ad andare dietro allo sciocchezzaio giuridico del “reato universale”, della condanna giudicante col martelletto in mano, della punibilità estesa alle condotte legalmente o fattualmente lecite.
L’ultima notizia è un ulteriore segno della dismissione della cultura di consumo, in favore del consumo della cultura. C’è sempre qualcosa di immediatamente più redditizio di una sala per vedere un film, di un locale dove si senta bella musica, di una pila di libri di viaggio. Ci sono le giacche prodotte in Asia da una forza lavoro sottopagata, le scarpe in pelle di animali strani, le sigarette elettroniche ai profumi di anice e mozzarella di bufala, i maxistore coi parcheggi che costano più della cover del telefonino.
Non suggerisco nessun legame, nessuna comparazione. Una cosa tuttavia avverto mi si incolli all’anima come l’alert di un’agenda, come il segnale di un umore di fondo in cui sta sguazzando tutto il male di cui siamo capaci. Lo star crescendo, o invecchiando – fate voi, in una accettata e praticata rimozione violenta della bellezza spontanea, della bontà consueta, dell’umanità nella sua tenerezza, presenza e fallibilità. Le separazioni non sono crisi di crescita, ma onte da lavare col sangue; i diritti degli altri sono sempre al di sotto del mio giudizio; c’è sempre qualcosa più lucrativo della condivisione conviviale e comunitaria. Sol che così facendo non è che si invecchi o si proceda secondo natura: ci si direziona alla fine.
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