Domenico Bilotti: "Ergastolo ostativo, la disinformazione è il vero regalo alle mafie"

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Domenico Bilotti
  26 ottobre 2019 13:04

 
di Domenico Bilotti*
 
La Corte costituzionale italiana e la Corte europea dei diritti dell’uomo hanno attribuzioni diverse e ruoli non sovrapponibili. L’una è giudice delle leggi nel diritto dello Stato, l’altra è organo la cui giurisdizione è fissata in un trattato internazionale. Come da tempo i giuristi si augurano, però, le Corti finiscono per dialogare: o perché le motivazioni della sentenza di una Corte richiamano la giurisprudenza dell’altra o perché quasi simultaneamente e in modo spesso del tutto involontario decidono di argomenti simili, con poteri e provvedimenti di differente natura. 
 
L’articolo 4bis, I comma, dell’ordinamento penitenziario italiano è esattamente uno di questi casi. L’articolo in questione, che prevede l’esclusione dai regimi beneficiali per alcuni soggetti condannati alla pena dell’ergastolo, e la disciplina che detta sono stati dichiarati dalla Corte di Strasburgo incompatibili con l’articolo 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, che vieta la tortura e i trattamenti inumani e degradanti. Intervenendo in riferimento a un diverso caso concreto, ma non invertendo una valutazione negativa dell’istituto, la Corte  italiana ha dichiarato incostituzionale la norma che prevede il cd. ergastolo ostativo nella parte in cui non prevede però  la concessione di permessi premio in assenza di collaborazione con la giustizia nemmeno quando sia ormai esclusa l’attualità della partecipazione all’associazione criminale. 
 
Molti hanno commentato le due pronunce eleggendole a “regalo alla mafia”, a liberazione anticipata dei mostri della mafia stragista, addirittura (e come sbagliarsi?) ad attacco frontale alla sovranità dell’Italia nella lotta alla criminalità organizzata. Nulla di tutto questo. Le due pronunce, se un punto in comune ci pare che tratteggino, insistono su un aspetto molto diverso: non ci può essere un automatismo che escluda sempre e comunque un soggetto dai regimi di “beneficio”, in assenza della previa valutazione di un giudice. È l’autorità giudicante, garante della vicinanza alla fattispecie singola, che determina caso per caso l’ammissione a un diverso trattamento sanzionatorio. È l’elogio di un principio chiaro: l’esecuzione della pena ha un giudice e un giudizio, non è un “buttate la chiave” (e nemmeno un “aprite le porte”): è il giudice che può riscontrare – e in Italia, fatti salvi i casi pur clamorosi che comprensibilmente fomentano l’opinione pubblica – l’immissione del soggetto in un percorso rieducativo, riabilitativo ed emendativo. I giudizi di esecuzione sono peraltro statisticamente molto restrittivi e fa rumore l’approccio opposto. 
 
I fiumi di carta non apriranno le celle a sgherri e sicari, le città italiane non dovranno lottare con nuovi demoni (non bastassero i tanti e veri che abbiamo ogni giorno). 
L’ergastolo ostativo non appartiene ai principi ispiratori della Carta costituzionale: l’idea del prigioniero ostaggio della sua pena non appartiene ai costituenti e alle costituenti, che in molti casi il carcere conobbero per davvero. La pena può e deve consentire a chi ha espiato o sta espiando le colpe individuate dall’applicazione della norma penale di non restare vita natural durante un soggetto espulso da ogni forma di contatto col mondo, inumato in una bara di sbarre. La pena funziona quando agisce, non quando si ipostatizza: altrimenti non funziona. 
Proprio Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, due simboli della lotta alla criminalità organizzata portata al suo più alto livello di efficienza e qualità investigativa, hanno scritto pagine importanti sulle collaborazioni di giustizia e sulla loro gestione: certi che le propalazioni rese all’autorità giudiziaria non siano di per sé sinonimo di verità e pentimento e altrettanto certi che un processo di radicale ripensamento individuale possa avvenire anche per il reo notorio, il reietto ufficiale, il delinquente più sperimentato. 
La lotta alla mafia s’alza di qualità se diventa strategia di scoperta dei presupposti sociali e degli effetti anche patrimoniali dell’agire mafioso, non se la si inquadra credendo che azzerare le minime, minime, forme di socialità sia l’unica via … e per cosa? 
Di questo, dell’avanzata di mafie estere in Italia, della penetrazione delle mafie nell’agire amministrativo, della disinvolta gestione legislativa del processo (tanto civile quanto penale) non c’è traccia nelle parole di chi ha tuonato contro il verdetto di Strasburgo o contro una Corte costituzionale invece sostenuta e supportata a convenienza e a corrente alternata. Ed è strano perché il sapere nell’agire democratico è il solo vero regalo alla legalità. 
 
 
 * professore a contratto di Diritto e religioni nell'Università Magna Graecia di Catanzaro 

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