E se Augias avesse ragione? E se, al netto di frasi forti capaci di scatenare la proverbiale permalosità dei calabresi, la sua denuncia-shock avesse realmente il potere di provocare un moto di consapevole autocritica, tale da evitare l’infausta previsione (“la Calabria è una regione perduta, irrecuperabile”)?
La reazione sdegnata alle parole di Augias era largamente prevedibile. A nessuno piace vedersi rinfacciare i propri difetti. Ma se la Calabria occupa stabilmente l’ultimo posto in Europa come qualità della vita, se la sanità calabrese è classificata come la peggiore d’Italia, se la criminalità afferma la propria supremazia anche nei campi della politica, delle professioni e dell’imprenditoria, qualche dubbio sulla posizione di Augias è legittimo. Un conto sono l’orgoglio e l’identità, valori sicuramente preziosi; un altro conto è la presa di consapevolezza della gravità di una condizione che pone la nostra terra quasi ai margini.
Con questo, sia beninteso, non intendo minimamente giustificare Augias o, peggio, schierarmi al suo fianco. Dico solo che le sue dure parole fanno riflettere, oltre che fare male.
Peraltro, non è la prima volta che sulla Calabria vengono espressi giudizi taglienti. Agli inizi dell’Ottocento, un funzionario napoleonico, tale Augustin Creuzè de Lesser, scrisse che “L’Europe finit à Naples et même elle y finit assez mal. La Calabre, la Sicile, tout le reste est de l'Afrique”. Risparmiamoci la traduzione.
Mi vengono in mente almeno due circostanze più recenti. La prima è il reportage di Giorgio Bocca del 1992, intitolato “Calabria Aspra”, in cui il grande giornalista piemontese paragonava la Locride al Vietnam, con la sola differenza che “lì la guerra è finita, mentre qui la guerra sembra non finire mai”. Anche in quell’occasione, ci fu una mezza rivoluzione contro la leggendaria “penna” di Repubblica.
La seconda è l’irriverente “comizio” di Antonello Venditti durante un concerto in Sicilia nel 2009, in cui l’autore di “Sotto il segno dei pesci” si chiedeva provocatoriamente: “Ma perché Dio ha creato la Calabria?”. Aggiungendo: “speriamo che facciano il ponte sullo Stretto, così la Calabria ha una ragione di esistere”. Apriti cielo! Le canzoni di Antonello sparirono dalla programmazione di tutte le radio libere della regione.
Disprezzo etnico ? Razzismo? Oppure un colpo di frusta per “costringere” le coscienze a riflettere, a fare autocritica, a fare tesoro di errori imperdonabili? Lascio ad ognuno il peso di una risposta esaustiva. Le parole di Augias fanno male. Personalmente, pur facendo fatica ad accettarle, preferisco pensare e riflettere sui nostri errori collettivi, sulla pesante responsabilità di ognuno di noi di avere contribuito a questa immagine devastante della terra che diciamo di amare. Preferisco pensare (e sperare) che la profezia di Augias non si realizzerà, che la nostra terra – come ha scritto Leonida Repaci in “Calabria grande e amara”– raggiungerà la sua felicità, magari con più sudore, ma la raggiungerà. E preferisco applicare alla Calabria un passo della poesia rap letta da Amanda Gorman alla cerimonia di insediamento del presidente Biden: “Sorgeremo dal Sud inondato di sole. Ricostruiremo, ci riconcilieremo, guariremo insieme”.
Sergio Dragone
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