Sono d’accordo con quanti ritengono che, costi quel che costi, occorra far ripartire l’economia.
Privi di questa, il dubbio che uno Stato cessi di esistere diventa una certezza.
L’incidentale “costi quel che costi” costituisce tuttavia un vaso di Pandora che, una volta scoperchiato, metterà in tutta la sua evidenza l’enorme debito pubblico al quale l’Italia dovrà far fronte. Penso, perciò, che una volta rimessa in moto l’economia (auguriamoci molto a breve), non tarderà il momento del redde rationem.
Il nostro PIL è stimato in circa 1.800 miliardi di euro (dati pre-pandemia); allo stesso viene attribuito un calo di circa il 10%, a causa della crisi, che lo fa scendere quindi a circa 1.650 miliardi; per cui quando si legge che il rapporto col debito pubblico a fine pandemia sarà almeno del 155/160% è facile calcolare che l’ammontare complessivo di tale passività potrà essere di circa 2.600/2.700 miliardi di euro. Una cifra astronomica garantita, come sappiamo, dai titoli che il Tesoro emette e che gli investitori acquistano sulla base della loro convenienza, facendoci pagare interessi più o meno consistenti in funzione del grado di sostenibilità del debito stesso.
Sappiamo anche che gli interessi pagati ai detentori dei titoli del Tesoro vanno ad alimentare una voce di spesa del bilancio dello Stato per la copertura della quale, ai fini del suo pareggio, è necessario provvedere o alla riduzione di spese e/o all’aumento delle entrate.
Sarà così tutta concentrata su questo campo la battaglia che si combatterà a fine pandemia e serviranno una politica competente e lungimirante assieme ad una presa di coscienza più seria e meno mediatica dipendente da parte dei cittadini italiani.
Non c’è alcun dubbio che una consistente parte di debito pubblico dovrà essere abbattuta attraverso una tassazione straordinaria, vedremo poi se si tratterà di patrimoniale, condono o prestito irredimibile o altra alchimia finanziaria (cfr. Sabino Cassese, 14/5/2020, Corriere della Sera, “L’intera collettività deve accollarsi il debito”). Ma qualcosa del genere, stiamone certi, sarà.
Al resto bisognerà pensarci mettendo in campo un rivisitato sistema fiscale che tenga conto, finalmente, dei princìpi di generalità, equità e progressività, operando effettivamente al contrasto del fenomeno dell’evasione tributaria che da solo, se fosse sconfitto, potrebbe portare, senza richiedere ulteriori sacrifici alla collettività onesta, all’abbattimento della metà del debito pubblico in meno di dieci anni!
Ovviamente non potrà esserci prelievo fiscale che tenga, e dunque entrate erariali utili a finanziare la spesa, se non vi sarà crescita di Pil e, ancora più a valle, di reddito pro capite. In una parola, se non vi sarà aumento della produttività nazionale.
Su questo terreno si giocherà un’ulteriore partita per la quale già sembrano se non dividersi, quanto meno distinguersi, le scuole di pensiero. A chi affidare nei prossimi mesi/anni la ricostruzione dell’apparato produttivo italiano?
Gli imprenditori, messi a terra dalla crisi pandemica, hanno bisogno di ricapitalizzarsi e temono che l’intervento dello Stato non sia del tutto “gratuito”, poiché questo potrebbe chiedere in cambio tangibili aiuti all’occupazione, potere di controllo sui conti o ingresso nel capitale. Il Governo, dal canto suo, potrebbe pensare ad una “trasformazione dello Stato per ripartire” (Mariana Mazzuccato, University College London e Consigliere del Presidente Conte) partendo dalla constatazione “che molte cose non hanno funzionato per anni” e che “lo Stato non può limitarsi ad aggiustare i danni economici provocati dalla crisi finanziaria e dall’epidemia”, immaginando quindi un ritorno a positive esperienze del passato (IRI, al netto degli errori commessi) rivisitate in chiave più attuale (CDP, MEF) poiché lo Stato “può creare e operare nei mercati a fianco delle organizzazioni produttive, impostando quel cambiamento strutturale del modello economico di cui l’Italia ha improrogabilmente bisogno”.
Non nascondo la mia personale simpatia per un serio ritorno dello Stato nei servizi e nell’economia, almeno in funzione regolatrice(ah, quanto mi piacerebbe vedere re-riformato quel benedetto Titolo V della Costituzione! E anche, se si potesse, aboliti del tutto quei 21 centri di spesa ed in alcuni casi generatori di velleitarie ambizioni autonomistiche, se non secessionistiche, che si sono rivelate le Regioni!).
Ma detto ciò, in tali contesti, il Sud del Paese che ruolo potrà e dovrà avere?
Secondo Adriano Giannola, Presidente della Svimez “il Sud rischia di rimanere indietro nella fase della ripresa perché sconta la precedente crisi” e “la probabilità di uscita dal mercato delle imprese meridionali è quattro volte superiore a quelle del Centro Nord.” Una catastrofe, dunque, che il Mezzogiorno non può permettersi ed alla quale occorre dare un argine cominciando proprio dal restituire giustizia a quei territori, mettendo fine alla sottrazione di risorse pubbliche calcolata dall’Agenzia della coesione in circa 60 miliardi annui (mi sono occupato della questione sia in un mio articolo, sia nella recensione del pregevole lavoro di Marco Esposito “Zero al Sud” edito da Rubbettino), una pratica che ha portato all’acuirsi delle disuguaglianze e al triste dualismo Nord-Sud.
Al Governo si chiede di mantere fede alla “clausola del 34%”, che prevede in quella percentuale la misura degli investimenti pubblici da destinare al Sud, indispensabili a dotarlo di infrastrutture ed a reindustrializzarlo, facendo conto sulle nuove green technologies, sui suoi grandi porti commerciali, sull’ambiente, sulla cultura e sul turismo, una clasusola sulla quale il Ministro Provenzano sembra averci scommesso la testa rispondendo ad una perplessità avanzata dal Sen. Ruotolo: “Sandro, è la mia battaglia. Se ti riferisci a quel documento che circola, è un documento del Dipe, non del mio ministero, mai discusso in sede politica, e nella parte in cui paventa meno risorse al Sud per parte mia è del tutto inaccettabile.”
Gianfranco Viesti, dalle colonne del Messaggero (7/5/2020, n.d.r.), sostiene giustamente che nell’ambito di una saggia e unitaria politica industriale per l’Italia “far ricrescere imprese e lavoro al Sud fa benissimo all'intero Paese: stimola forniture di macchinari e attrezzature dal Nord, può far crescere la competitività d'insieme delle filiere, mette all'opera saperi e competenze, riduce le necessità di interventi di emergenza”.
Vedremo.
Antonio Bevacqua
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