Il 21 febbraio può considerarsi uno spartiacque. Da quel giorno, data in cui il Ministro della Salute ha diramato l'ordinanza che prevedeva la quarantena obbligatoria per chi fosse stato a contatto con persone positive per l'infezione da Covid-19, gli Italiani hanno cominciato a “familiarizzare” con una lunga e pesante serie di misure riguardanti quella che il successivo 11 marzo l’Organizzazione Mondiale della Sanità avrebbe ufficialmente decretato come “pandemia”.
Da allora ad oggi, ed è tragicamente cronaca, l’Italia ha dovuto registrare perdite umane inimmaginabili fino a qualche mese fa, situazioni inedite quali il lockdown, ovvero la chiusura delle attività produttive, commerciali e professionali, il distanziamento sociale, l’isolamento presso le proprie abitazioni, la chiusura di confini, porti e aeroporti, in una parola il fermo e la conseguente crisi economica totali. I lievissimi segni di miglioramento delle statistiche su contagi e decessi stanno ora spingendo il Governo, pressato da più parti, ad assumere provvedimenti di allentamento delle misure restrittive, con riguardo soprattutto alle attività economiche.
In quest’ambito si discute pertanto del “dopo coronavirus”, un avverbio, il “dopo”, sul quale si sono fondate le più disparate congetture da parte di esperti in ogni materia, la stragrande maggioranza concorde nell’ammettere che il “dopo” sarà molto diverso dal tempo che lo ha preceduto, quel “prima” che alcuni indulgendo in immagini nostalgiche ce lo rappresentano quasi fosse il giardino dell’Eden. Credo perciò che se non si parte da una valutazione reale di ciò che abbiamo lasciato e di ciò che ci attende rischiamo di crearci pericolose aspettative o illusioni.
La riflessione deve dunque vertere su quale Paese eravamo (siamo) “prima” dell’epidemia e quale Paese saremo o vorremo essere alla fine di questa incredibile situazione socio sanitaria.
Cerchiamo allora di ricordare cos’era l’Italia prima di quel 21 febbraio.
Per estrema ed incompleta sintesi: un Paese con tutt’e quattro le ruote a terra:
-un debito pubblico che aveva superato i 2.400 miliardi di euro;
-un rapporto debito/pil a dicembre 2019 di circa il 135% e che alcuni analisti vedono al 155% a “fine pandemia”;
-un’evasione fiscale (la vera madre di tutte le questioni) di oltre 100 miliardi l’anno;
-opere pubbliche vetuste e non manutenute, causa anche di recenti tragedie;
-una burocrazia protagonista in negativo di ogni atto e di ogni procedura amministrativa;
-una sanità pubblica alquanto disastrata -come abbiamo tristemente constatato- che non garantisce uniformitàsu scala nazionale;
-una scuola pubblica cenerentola;
-una giustizia (civile, penale, amministrativa, contabile e tributaria) per la quale si odono solo annunci di grandi riforme, finalizzate ad evitare che tale alta funzione si trasformi in una dannosa remora al cammino del Paese;
-un sistema carcerario che ci allontana dagli standard civili, proprio noi che siamo il Paese di Cesare Beccaria;
-una classe politica che da più parti viene definita con termini tra i più benevoli, inadeguata;
-un apparato industrale che negli ultimi anni ha perso circa un terzo del suo potenziale produttivo;
-un sistema imprenditoriale per lo più sottocapitalizzato o in perdita, tanto da aver già chiesto per bocca dei propri rappresentanti, già prima dell’evento coronavirus, il rinvio delle nuove norme sulla crisi d’impresa che, a loro dire, avrebbero fatto “saltare” il 70% delle aziende;
-un sistema bancario che presenta con regolare cadenza il default dei suoi istituti di credito;
-interi territori da molti decenni ostaggio delle peggiori criminalità organizzate;
-il Mezzogiorno del Paese, dimenticato, negletto e penalizzato da quel federalismo che lo ha assurdamente sottofinanziato;
-una consistente aliquota di popolazione “povera”, (aggettivo che contiene il significato “non disporre di un reddito sufficiente per condurre una vita dignitosa”), e parliamo di oltre 5 milioni di cittadini appartenenti a un Paese occidentale!
L’elenco non è completo, ma credo basti a dare il senso di ciò che ci riguarda e per comprendere se l’agognato ritorno alla “normalità” debba significare il ritorno a quel “prima del 21 febbraio” testè descritto o piuttosto l’avvio di un difficile percorso lungo il quale procedere verso una vera ricostruzione che sia in primo luogo “civile”.
Credo dunque, che da cittadini, da professionisti, da imprenditori, da classe dirigente in senso lato, ciascuno per le proprie responsabilità, si dovrà gettare il cuore oltre l’ostacolo per non ripiombare in quella “strana” normalità (sospesa per via di un virus) così straordinariamente “normale” anche per noi stessi che quando qualcuno dall’estero ce lo fa notare, ci indigniamo pure.
Tutti assieme, quindi, dovremo impegnarci a devolvere ogni risorsa all’alba di una nuova Italia, nella prospettiva di una rinascita e di una crescita collettive che, sono certo, ci ristoreranno dei sacrifici compiuti e da compiere.
Antonio Bevacqua
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