Fascismo e antifascismo oggi, in Italia e in Calabria

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Franco Cimino
  11 dicembre 2019 18:00

di FRANCO CIMINO

Libertà significa anche, secondo la più antica definizione, libertà di esprimere il proprio pensiero e libertà di dissentire rispetto a qualsiasi libero pensiero. La Democrazia, però, a volte gioca brutti scherzi quando sembra voler giocare con quel principio, direi se non assoluto certamente fermo. Una delle volte avviene quando chi contesta i fomentatori di odio odia egli stesso i primi. O quando a un politico dichiarato “inappellatamente” fascista, si vorrebbe impedire che parlasse o che parlasse senza essere di fatto impedito a farlo. Accade cioè che a un un fascista etichettato o fondamentalmente vero, si neghi il diritto alla parola, che proprio il fascismo e ogni totalitarismo, di cui abbaiamo perso memoria, per principio nega e in alcuni regimi politici anche per legge impedisce. Ricordo a me stesso che nella storia delle società organizzate mai un popolo ha desiderato, per cultura e visione politica, un regime oppressivo delle libertà personali e neppure uno Stato d’ordine.

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L’uomo, per sua natura, tende a vivere in condizioni e in spazi in cui possa stare leggero, quindi comodo nei suoi movimenti. Il più liberamente possibile, quindi. Certamente, si potrebbe nuovamente riprendere a discutere su ciò che meglio si possa intendere come libertà e come spazi in cui essa possa essere agita, se essa possa avere limiti e quali e se è la coscienza individuale o gli Stati che possano obbligarle limitazioni. Ma, una cosa deve pur restare ferma. Ed è che se la possibilità di esprimere liberamente il proprio pensiero appartiene al principio di libertà di parola, questo deve essere garantito a tutti, nessuno escluso, se non per motivi di legge, atto che riguarderà solo le forze istituzionalmente preposte a impedirla. Detto questo e tornando ai fatti storici, i fascismi e i totalitarismi si sono affermati, con modalità diverse, non sempre quindi violente, solo per il fallimento delle politiche dei governi democratici, da quelli liberali a quelli dei socialisti democratici. Le società che entrano in crisi per le scelte politiche viziate da ignoranza, irresponsabilità e corruzione, creando povertà estesa e disordine sociale, confusione e paura, si rivolgono a furor di popolo ( e il caso di dire) e prive di lucidità di pensiero, perché obnubilato, a coloro i quali dichiarano di garantire ordine e sicurezza, lavoro e prosperità, attraverso un rapporto diretto tra il popolo e il capo, il quale si fa garante, sul suo onore, dell’assolvimento di tutte le promesse.

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Prima che la rottura democratica si verifichi e prima che la sfiducia verso le istituzioni si trasformi in disperato affidamento all’uomo forte, c’è un lungo tempo in cui le forze popolari e democratiche, il popolo “ buono”, le menti illuminate e le intelligenze colte o ispirate, possono attivare tuti quei meccanismi che le Costituzioni democratiche consentono per vigilare sui governi, opporsi ai brutti governi, cambiare le classi dirigenti, rinnovando continuamente dall’interno il sistema democratico. Per motivi diversi, che analizzeremo altrove sebbene non ve ne sia bisogno data la loro evidente chiarezza, queste forze sono più di vent’anni che latitano, silenziano, sotto il sole della pigrizia messicana e sotto l’albero delle convenienze. Non si accorgono mai che l’elettorato che si reca alle urne sempre più si assottiglia e che a votare ormai ci vanno solo, nella grandissima sua parte, quelli che dal vecchio sistema in crisi si aspettano ancora favori o privilegi o soltanto, per i più ingenui e stanchi, promesse sulla fame nera, che divora territori e famiglie. Si svegliano solo quando qualche antipatico, per nulla forte in nulla, si affaccia da un balcone o da una terrazza balneare, e minaccia sfracelli della democrazia. E, allora, si invita il popolo ad andare in piazza, dove questi parla, o in altre piazze un po’ più lontane, per difendere la democrazia. Per fortuna ho raggiunto la buona età che mi consente di ricordare quando in piazza ci andavamo per difendere davvero il Paese dalla minaccia di golpe e di sovvertimento dello Stato democratico. È stata dura e rischiosa, quella lunga stagione lastricata dal sangue delle stragi, ma abbiamo vinto. Quel popolo ha vinto contro il pericolo vero del ritorno del fascismo.

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Oggi sono cinquant’anni dalla strage di piazza Fontana, alla banca dell’Agricoltura di Milano, e mi viene ancora da piangere. Penso con dolore al tempo perduto e alla fatica che ha appesantito le gambe della nostra democrazia. Penso al percorso lungamente deviato che essa ha compiuto per liberare veramente il Paese dai suoi demoni nascosti. Il prezzo di questa stanchezza è stato troppo alto e ha finito col pesare nei processi di rinnovamento delle strutture economiche e delle classi dirigenti. Adesso siamo in una stagione diversa in cui la perdita di memoria collettiva si intreccia con la crisi della politica. Tutto questo ingenera nei più avvertiti, pochi purtroppo, preoccupazione, rabbia e timori di altro genere. Specialmente, verso lo scadimento della lotta politica, che, se non fosse per le sue conseguenze, si presenterebbe come una sceneggiata comica. Si prenda , per tutto il contesto, la Calabria. Se essa acclama, in una considerevole sua parte, un signore di Milano che nei confronti del Sud e i problemi di ogni sud del mondo, ha la visione che chiaramente appartiene al sentire di un certo Nord e agli interessi che esso rappresenta, la colpa di chi è? E se a ogni balcone che gli urla contro, questo signore aumenta i consensi, qui e nel resto dell’Italia, il merito è soltanto suo, di quella oratoria ciceroniana e di quel pensiero crociano o non di chi si è dimenticato che i governi che hanno guidato la Calabria, da qui e da Roma, hanno portato questa nostra terra, e il Paese, nelle drammatiche condizioni in cui si trova?

La Calabria ha avuto, pure nell’arroganza di chi si è impadronito del potere di far slittare per ben due mesi le elezioni, il tempo utile per trasformare ogni dissenso, primariamente verso le forze che ci hanno governato nelle ultime legislature almeno e poi nella preparazione di una proposta elettorale di tutte le forze sane e nuove della regione. Una proposta unitaria con liste e un candidato alla presidenza che sapessero dare, senza crismi di appartenenza partitica o di schieramento, la certezza che finalmente qui sia possibile davvero cambiare, con uomini e donne di comprovata moralità e idealità e servizio oblativo speso, nelle più umili forme, verso i bisogni reali della nostra gente. Nulla però è stato fatto. Chi avrebbe da solo potuto farlo, chiudendo, ad amor di popolo, anzitempo ogni competizione elettorale, ha fatto il giro della Calabria e del mondo per denunciare la vergogna di questa politica e per insegnare, a partire dalle scuole, come bisognerebbe cambiare, e lì si è fermato. Tutti gli altri, o sono rimasti a casa o si sono dimenticati che è anche col voto che si cambiano le politiche, e che non sempre occorra vincere le elezioni per far vincere la Politica. In tempi di emergenza morale, come questi, tuttavia, possono bastare anche solo poche persone e pochi eletti per avviare un processo di cambiamento reale, specialmente delle coscienze dei calabresi.

Necessario, però, è che queste persone siano nuove davvero e non la ripetizione scimmiottata di tutte le ipocrisie e gli opportunismi che si sono, con l’aiuto del potere dei media, avvicendati in questi anni in Italia e in Calabria. 

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