Fase 3. Alle Università chi ci pensa? Il prof Cleto Corposanto: "La cultura è un investimento"

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Cleto Corposanto
  12 giugno 2020 17:37

di CLETO CORPOSANTO

Mi guardo in giro e l’impressione è quella che la buriana sia passata. Ci sono le mascherine, è vero: sono rimaste a testimoniare che siamo in una sorta di “libertà condizionata” e chissà per quanto tempo ancora resteranno al loro posto, ben posizionate a coprire naso e bocca. Ma in fondo quello è il meno: chi come me ha sempre girato il mondo si è abituato alla vista della gente che, mascherina indossata, svolge normalmente la propria vita di tutti i giorni. In molti paesi, soprattutto in Asia, l’uso della mascherina è diventata una norma di protezione e auto-protezione così diffusa da non farci più neanche caso, praticamente.

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Sono passati alcuni mesi dall’esplosione della pandemia CoVid19 e nel frattempo abbiamo imparato molte cose; la più importante è che con questa pandemia – e speriamo sia l’ultima, anche se nessuno potrebbe giurarlo, oggi – dovremo convivere per un po’, almeno fin quando non sarà pronta una cura efficace o, meglio, un vaccino. Ed è proprio questa consapevolezza – aggiunta al progressivo miglioramento delle condizioni generali, frutto anche di un lockdown che sta piegando tutto il mondo sotto il segno della recessione ma ha dato indubbiamente buoni risultati dal punto di vista della propagazione del contagio – che pian piano ha aperto tavoli progressivi di discussione sulla ripresa delle attività. Sia chiaro. Molti non si sono mai fermati. Basti solo pensare a medici e personale sanitario nel complesso e a tutte le aziende delle filiere dei beni di prima necessità. E negozi di alimentari, e forse dell’ordine. Un elenco lunghissimo. Ma tantissimi si sono fermati; a casa, lavorando con questa formula che si chiama smart con un inglesismo abusato, ma che di intelligente in molti casi ha ben poco. Diciamo lavoro da casa, e ci capiamo meglio.

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La pandemia ci ha colto totalmente impreparati sotto tutti i punti di vista ed è normale che la risposta più facile, difronte alla catastrofe dei numeri dei contagiati e dei morti, sia stata quella: fermi tutti (o quasi). Poi, pian piano, si torna alla normalità. Si discute di negozi e codici Ateco, di ristorazione e vacanze, di centri di bellezza e toelettatori di animali, di trasporti ed estetisti, di bar all’aperto e Food delivery. Di sport. E’ ricominciato il calcio, Coppa Italia e poi serie A.

E’ giusto. Sono tutte cose importanti per la vita del Paese (con la P maiuscola). E’ importante che riaprano i centri commerciali, i negozi tutti, che si torni a poter andare in palestra, a viaggiare, ad andare al ristorante. Che si giochi a pallone. Si discute già di come e quando riaprire discoteche, e cinema, e teatri. Tutto giusto. Dobbiamo ricominciare (anche se molti non hanno ancora realizzato forse che non sarà forse più come prima. Perché il come era prima è probabilmente concausa di quello che è accaduto, ma questo è un altro discorso). Non ho ancora sentito nulla sull’Università (e poco, e confuso, sulla scuola). Anche a Giugno, dopo Aprile, abbiamo insegnato e laureato a piene mani (e quelli bravi anche a pieni voti) davanti allo schermo di un computer. L’Università (e la scuola) hanno risposto magistralmente al disastro di marzo: nel giro di qualche giorno hanno attivato tutto quello che si faceva in presenza, all’improvviso, a distanza. Con un po’ di problemi accessori, però.

Intanto, le dotazioni infrastrutturali. In Calabria, per esempio, la particolare orografia non è scevra da problemi di connessione della rete che non ha certamente aiutato. Certo, l’entusiasmo iniziale da parte di tutti, docenti e discenti, ha fatto in modo che molte difficoltà fossero superate; ma lavorare così, sia chiaro, non può essere per sempre. Altrimenti le Università – mi limito a questo, per non parlare delle scuole dove il discorso sarebbe ancora più marcato – sarebbero tutte telematiche, o no? Certo, insegnare online è possibile, lo abbiamo fatto, ma non può essere la regola. Perché quello che avviene nelle aule universitarie è un trasferimento di sapere non nozionistico, non cattedratico, non predeterminato. Pensare che basti registrare una lezione, metterla online e chi si è visto si è visto è il modo meno intelligente di pensare alla formazione universitaria. Che è fatta di lezioni, certo, ma è fatta di aule, è fatta di incontri, confronti, domande, dubbi, risposte, chiarimenti, socialità. E’ fatta di un insieme di cose che fanno relazioni sociali fondamentali per crescere assieme allo studio.

E allora, perché di Università e di ripresa della “normalità” non si parla quasi? Temo vi sia dietro una visione ottocentesca da un lato – appunto, basta fare lezione in cattedra, sia come sia – ed erroneamente economicista dall’altra. Come se, non essendo un settore produttivo, non vi fosse necessità (e urgenza) di pensare ad un piano di ripartenza serio e in sicurezza per tutti. E’ profondamente sbagliato. Il passato ha già insegnato che tarpare le ali – economicamente ma non solo – ad alcuni settori è deleterio: pensate ai tagli alla sanità (e pensare alla pandemia), pensate a quanto pericoloso possa essere lasciare che le Università si svuotino perché ritenute poco importanti; o perché la crisi economica non permetterà a molti di iscriversi. La cultura è un investimento: costa ma si investe sulla crescita complessiva di una comunità. Perdere questo treno può diventare, davvero, un pericolo molto grave per tutto il nostro Paese.

 

 

 

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