Festa 25 aprile, Cimino: "Fascismo, antifascismo, democrazia, resistenza, conservazione e conversione"

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Franco Cimino
  25 aprile 2024 23:30

di FRANCO CIMINO

Il Venticinque Aprile di ogni anno da quel suo primo giorno, è festa. Come Natale per i cattolici. Una festa laica quasi di uguale valore. È il giorno che rinnova la Nascita. Della Vita. Di Gesù e della Vita nuova, il Natale. Della Libertà e della Vita nuova, la Resistenza. Sarà un caso, ma i due Venticinque si muovono sulla stessa onda, la promozione della Vita, a soli quattro mesi di distanza. Venticinque dicembre. Venticinque aprile. Restiamo su quest’ultima, senza tema di aver fatto un’equiparazione irriguardosa, che prudentemente prosegue nel pensiero successivo. La Libertà è nata dalla lotta contro il male che l’aveva conculcata. Violata. Repressa. E con la violenza più brutale. La prigione più inumana e la barbara uccisione dei combattenti in suo onore. Anche Natale, è la nascita dall’orrore. Anche la “rinascita” è seguita alla violenza più crudele. Poco importa per tutti, credenti e non, che a rinascere fosse il figlio Dio, a Natale, e qui il dono più grande che Dio, o la Natura imprecisata, ha fatto all’uomo, la Libertà. Ciò che importa è che il Male perde sempre quando a combatterlo è il Bene. Per il Venticinque Aprile il male è il Nazifascismo, con la sua cultura di morte, partorita da un’ideologia orribile. Quella che crea la divisione tra gli esseri umani e l’eliminazione totale di una parte considerata razza inferiore. L’ideologia dell’intolleranza, della negazione della pluralità e delle differenze. E quella dell’imperio del più forte sul debole, della forza fisica sulla ragione. Del

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potere sulla politica. Della spregiudicatezza sulla morale. L’ideologia che impone il potere di un solo uomo, la forza di un solo partito da lui inventato e comandato, su tutti. Cittadini, società, istituzioni, le cui identità e il cui valore vengono annullati e nel loro residuale assoggettati al culto del capo. Padrone assoluto di tutto. Anche della vita delle persone. Il Bene è la Libertà, quale valore fondamentale dell’essere umano, che nasce nudo perché già coperto di quella veste bianca, corredo della Vita. Il Bene è la Democrazia, che Libertà cura, difende, valorizza. Libera. Ché, Resistenza insegna, Libertà è liberazione di sé stessa, nel suo continuo divenire. Il Venticinque Aprile è questo, non altro che possa essere sottoposto alla forza del potere politico del tempo. Quel potere che, mutevole, vorrebbe alterare, con assurde riscritture della storia, in cui torti e ragioni si vorrebbero confondere magari nel nome della morte che accomuna, il valore della Resistenza dalla quale, va ricordato, è nata la Repubblica. Repubblica, va ribadito, che è democratica perché antifascista. E antifascista perché è democratica. Il dono più grande del Venticinque Aprile, unitamente a quello della forma dello Stato, è la Costituzione. La nostra, di cui ricorre ancora, prolungandosi, l’anno settantacinquesimo, pur se poco celebrato, è la più bella del mondo. Lo comprovano due elementi e un valore, non rintracciabili in altre pur belle. Sono visibili. Tutti e tre fermi lì, anche senza le parole. Il primo, la Libertà non è concessa. Nè poco, né abbastanza, né molto. Ché Libertà non si misura e non si qualifica. Libertà è. Anche sostanza e forma di sé stessa. Pertanto, non la si concede, ma la si riconosce. E ciò è naturale perché libertà è Persona. Si badi, anche questo dice Costituzione, non è solo per la persona. Libertà è la Persona, che per questa ragione è, insieme, mezzo e fine della Magna Carta. La sua guida, il suo coraggio. La sua luce. La sua intima fede nell’essere umano. Ragione stessa del divenire. Il secondo elemento, è il pluralismo. Il nostro, non è quello semplice e assai comune( ne ho scritto più diffusamente altrove)delle idee, delle fedi religiose, delle opzioni partitiche e politiche. Ovvero, non è solo questo. Il nostro, costituzionalmente più elevato, è quello delle istituzioni. Sono tante, tutte alla pari tra di loro. Non una più importante dell’altra. Ciascuna essenziale quanto le altre. Le nostre istituzioni non sono il luogo chiuso e poco illuminato in cui si gestisce il nudo potere, ma quello della partecipazione e della rappresentanza. Sono insieme il tempio laico della Democrazia. La sintesi di questa pluralità è rappresentata dal Presidente della Repubblica. Questa figura, alta più del colle di Roma su cui campeggia la sua casa, non è, come pure autorevolmente si afferma, istituzione altra. Ma il momento solenne in cui tutte quelle parità nelle diversità specifiche si incontrano. Si uniscono. E diventano una, non perdendo nulla di ciò che sono. Quel momento si chiama Nazione. Unità. Popolo. Unità della Nazione e in essa del popolo italiano. È utile ribadire, meglio chiarendolo, questo principio nella settimana in cui troppo frettolosamente il Parlamento sta per varare, nel silenzio generale, una delle riforme più pericolose per l’ordinamento statuale. Quella che, sotto il termine apparentemente elegante di premierato, reca la sostanziale modificazione della nostra democrazia e della struttura della Repubblica che di essa è informata. Sarebbe, questo, il primo passo verso una riduzione degli spazi della stessa e la sottile progressiva affermazione di un neo autoritarismo che rappresenta, ovunque si è realizzato nel mondo, il nuovo sistema per il governo “globalista” dell’umanità. A tutto vantaggio di un potere sovranazionale, sovraumano, sovrascientifico, sovaeconomico, che relega l’uomo ai margini della storia, strumento inutile di un potere che starà al di fuori di lui. E così, ciò che ci spaventava all’incrocio della storia tra l’Ottocento e il Novecento(l’ingresso impetuoso della macchina nei sistemi di produzione), oggi è diventato una favoletta dinanzi al potere finanziario e a quello della cosiddetta intelligenza artificiale. Ma anche questo è tema che qui va solo accennato, essendo un’altra la preoccupazione più pressante. Il terzo elemento presente, pur se non statuito, nella Costituzione, è un altro fatto straordinario, starei per definirlo unico. È l’intreccio indissolubile tra crescita economica e libertà. Tra Progresso e Democrazia. In pochi paesi al mondo questo fenomeno si è verificato con la forza costante con cui si è affermato in Italia. Dal millenoventoquarantacinque all’inizio del nuovo secolo, quando si è purtroppo interrotto, la crescita economica e quella della ricchezza del Paese hanno camminato insieme senza che Libertà perdesse nulla della sua forza. Si potrebbe ancora dire della Bellezza del Venticinque Aprile. Ma ci fermiamo dinanzi alla domanda che pensavamo di non doverci più porre. Cosa si è pienamente compiuto di questa data? Cosa si è completamente affermato di quei valori che l’hanno scolpita sul corpo martoriato del Paese? Cosa ha insegnato la Resistenza? Cosa di essa di insegna nella case e nelle scuole, come nelle sedi della politica, se ancora esiste? Chi sarebbe oggi disposto non dico a dare la vita, ma una parte del proprio benessere per difendere la Libertà? Il proprio spazio libero per un campo ideale di grano lucente. La risposta è deludente. È unica. Somma tutte quelle delle suesposte domande e le altre sottaciute. È questa: il Paese è diviso. Su tutto. E lo è perché è rimasto ancora diviso sui valori della Resistenza, perché troppo “ resistente” è stata, nel corso dei tre quarti di secolo, quella ideologia del fascismo volutamente non compresa nella sua tragicità del male che la sostanzia. Lo è perché della Democrazia è stata fatta passare, nel succedersi delle generazioni, solo la parte in cui si godono i diritti, lasciando indietro, ben nascosta, quella in cui Libertà si conquista con il sudore della fronte. E Democrazia è sempre una casa da completare quotidianamente, mattone su mattone. È divisa ancora per la mancata piena conversione ai principi costituzionali di quanti continuano a confondere il consenso con cui si conquista il potere, con la piena respirazione della Democrazia, che non è solo un sistema politico. Non è solo corpo. Ma è, soprattutto, anima. Respiro vitale. Governo e partecipazione. Risorse e sogno. Presente. È la costruzione del futuro dalla piena valorizzazione del passato. Ero proprio un ragazzo, ma lo ricordo bene, quando in quelle prime conferenze stampe, quelle buone, nell’ampio studio Rai a forma di Parlamento, in cui il leader politico veniva “ interrogato” da giornalisti veri in rappresentanza di tutti i giornali italiani, alla domanda se “ la presenza in Parlamento attraverso le elezioni non corrispondesse alla piena accettazione della Democrazia, quel capo della destra rispose che utilizzare gli strumenti del sistema non significa rinunciare alle proprie idee. Tutt’altro. L’Italia è divisa, letteralmente oggi in due parti, pur se le stesse sono al loro interno divise in più tronconi. Si è divisi sull’Europa. Sul Welfare. Sul significato della Vita fin dal suo concepimento. Sulle riforme e su quella dello Stato. Sulla concezione dello Stato. Sull’idea di giustizia e di eguaglianza. Si è divisi sulla guerra, perché si è divisi sull’idea di pace. Si è divisi su tutto perché resta ancora quella divisione fondamentale, il significato più profondo della Costituzione e il valore, anche morale, della Resistenza. E sui fatti che l’hanno vista vittoriosa sul fascismo. Divisi profondamente sul fascismo come tragedia nazionale e orrore della storia. Siamo infine divisi intorno a una questione per me nominalistica, come quella di ottenere dagli attuali leader della destra, in particolare di quella governante, la dichiarazione del loro antifascismo. Io penso, invece, che oggi il danno maggiore derivi, e da un fronte assai più largo, non da questa mancata pronuncia, ma dall’indifferenza dinanzi alle tragedie che il fascismo ha prodotto. Un’indifferenza che si estende fino ai giorni nostri quando si resta lontani dalle tragedie che si consumano quotidianamente sui diversi scenari di guerra aperti nel mondo. Quando si tifa per una guerra e ci si tura il naso per l’altra. O quando si piangono i morti del terrorismo belligerante con un occhi solo. O quando si distingue tra gli stessi morti e non si guarda agli innocenti massacrati. Ovvero, quando non ci si preoccupa dello sterminio provocato dagli Stati amici. E magari si discetta accademicamente sulla parola genocidio, negandone l’applicazione in quelle regioni del pianeta in cui interi popoli vengono letteralmente sterminati. E non in quanto esercito in armi contrapposto, ma come popolo, comunità appartenente a quella storia e a quella cultura. Il Venticinque Aprile, che pure ha in Sergio Mattarella, la sua espressione più nobile e nei pochi sopravvissuti all’Olocausto i testimoni più autentici di quell’orrore, non è ancora una Festa. È un momento della lotta che continua per l’affermazione piena degli ideali che la Resistenza ci ha consegnato. Perché li facessimo vivere con le idee degli uomini, la forza della Politica, le gambe dei democratici, la parola della Costituzione. Quella Costituzione antifascista che oggi più di ieri abbiamo il dovere di difendere. A tutti i costi. Con tutti i mezzi che Democrazia consente. Anche quello del sacrificio personale, l’atto più doveroso che gli italiani non compiono ormai più, ché la Politica non li chiama, il potere li allontana. E la cultura dominante li blandisce.

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