Prima la televisione e poi il web sono state considerate una minaccia per la radio. Ma niente ha scalfito il fascino e l'amore del pubblico per questo mezzo di comunicazione che, nell'epoca dei social, non conosce crisi. Il perché è forse spiegato nella capacità della radio di raccontare e far immaginare il proprio ascoltatore, sollecitando quell'elaborazione personale che forse nessun altro media riesce a stimolare.
Anche di questo si parlerà nel prossimo appuntamento del Festival d'Autunno, fissato per mercoledì 23 ottobre, alle ore 18:30, al Museo del Rock di Catanzaro. “Il ritorno della radio parlata” è il titolo dell'evento che avrà come protagonista Gianfranco Valenti. Catanzarese doc, autore, conduttore Rai Radio 2 e docente di “Tecniche dell'intrattenimento radiofonico” dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, Valenti illustrerà le sue idee sul perché la radio resiste al cambiare dei tempi, confrontandosi con alcuni speaker storici delle radio locali.
Come è nata la tua passione per la radio?
"E’ nata quasi per caso, come tutte le cose belle. Avevo 20 anni e mi trovavo in gita a Roma. La sera andai con un caro amico al Teatro Brancaccio a vedere il musical “Full Monty” per la regia di Gigi Proietti. E il giorno seguente lo stesso amico (tra l’altro di Catanzaro) mi convinse ad andare con lui negli studi di Radio Rai ad assistere al programma di Fiorello, Viva Radio 2. Mi innamorai subito di quel palazzo e rimasi subito incuriosito dalle possibilità che dava il mezzo radiofonico, se sfruttato a dovere".
Come hai coltivato, negli anni, questa passione?
"Pochi mesi più avanti, dopo un’attenta mappatura della radiofonia provinciale, decisi di andare a proporre un varietà a Radio Valentina Soverato. Un po’ perché in quella città viveva una ragazza che mi piaceva moltissimo e un po’ perché non mi avevano parlato benissimo del direttore. Arrivai da Frank Teti con un block notes pieno di idee, appunti, rubriche. Accettò tutto e tutte le mie richieste, senza condizioni. E meno male che non me ne avevano parlato bene… Oggi, a distanza di 17 anni, è per me uno di famiglia. Fu un grandissimo successo, prima con il “Paraponziponzishow” nel 2002 e poi con “Quelli della Radio” nel 2003. Entrambi in coppia con il mio amico attore Giuseppe Abramo. Senza contare gli anni in cui andammo al Festival di Sanremo. Dopo la laurea ho avuto la fortuna di fare uno stage a Radio 2, proprio in quel palazzo e in quello studio in cui ero entrato nel 2001. Mesi in cui lavorai al fianco di professionisti come Vincenzo Mollica, Massimo Cervelli, Roberto Gentile, Asia Argento, Angelo Pintus e gli stessi Fiorello e Baldini. Pochi anni fa il calabrese Gianmaurizio Foderaro mi chiamò a lavorare con lui ai nuovi canali digitali della radio e il resto, storia recente, lo conoscete già…"
Qual è il segreto, a tuo avviso, del successo della radio che è sopravvissuta, direi benissimo, all’evoluzione dei mezzi di comunicazione di questi anni?
"La radio non morirà mai. Il web è fatto apposta per aumentarne la forza, l’appeal, il seguito. Gli stessi speaker oggi sono quasi delle piccole celebrità proprio grazie a Instagram e Facebook. Vent’anni fa non era così. Il processo di modernizzazione della televisione è un po’ più lento, più compassato. Aumentano i canali, ma non la quantità e la qualità delle trasmissioni. O, meglio, sono pensate quasi tutte per il televisore e non per il web. La radio è sopravvissuta anche perché – e Fiorello già nel 2001 lo diceva – se viene fatta con passione e determinazione, può e sa dare le stesse soddisfazioni della televisione. Anche maggiori. La tv – se escludiamo le serie tv – ha un target medio alto, per noi “giovani” non è facile (e né paradossalmente) conveniente starci dentro, se non troviamo lo spazio adatto a noi. Avere pochissima libertà è un rischio. Invece la radio ti permette spesso di sperimentare, ti dà maggiore libertà e maggiore possibilità di sbagliare. Ci sono autori e redattori, ma al microfono ci vai sempre tu e se sei bravo a improvvisare, se hai un talento, loro ti lasciano fare. E così migliori giorno dopo giorno".
“Che spettacolo” è la tua trasmissione andata in onda su Radio 2 insieme con Silvia Salemi. Come ti sei trovato con la cantante siciliana e che riscontri hai avuto dal pubblico?
"Avevo scritto questo format dopo che me ne avevano bocciato un altro. Avevo proposto una conduzione a tre con altri due nomi celebri – che non vi dirò neppure sotto tortura -, un’attrice e un cantante. Due amici celebri, mettiamola così. Poi la Rai scelse di creare questa coppia con Silvia. Già dalla prima riunione entrammo immediatamente in sintonia. Piano piano siamo riusciti a scioglierci e a portare buoni risultati. Anzi, forse migliori di quelli che potessimo aspettarci e di quelli che potessero aspettarsi i nostri “capi”. Ricordo la sera dopo la prima puntata, erano passate le 22, quando mi telefonò la capostruttura di Radio 2 per farmi i complimenti. Grande soddisfazione, un premio inaspettato. I riscontri del pubblico sono stati, anche quelli, inaspettati. E poi, fidatevi, la radio è terapeutica. Ho passato un’estate in Rai con una brutta discopatia, ma ogni volta che facevamo riunione o andavamo in onda tutto magicamente passava! Con Silvia ci siamo visti, sentiti o scritti tutti i giorni, abbiamo riso molto ma abbiamo anche discusso criticamente... Se dovessi fare un bilancio, quindi, direi che il nostro sia stato un rapporto “vero”".
Autore, conduttore, docente: qual è il ruolo che ti piace di più?
"Scontato rispondere che la scelta è sempre una tortura. Tempo fa avrei sempre desiderato fare radio o tv con programmi scritti da me, oggi sono maturato e – se necessario – mi metto al servizio di idee altrui. In Rai mi prendono in giro perché dico spesso “Io sono un soldato, faccio quello che mi dite voi. Però secondo me si dovrebbe fare così…”. Ho avuto la fortuna di fare l’autore e il conduttore ma soprattutto di avere una squadra fantastica, tutti pronti a supportarci, a criticarci solo in maniera costruttiva. E a fare un po’ di casino, che non guasta mai. Insegnare all’Università è un miracolo per me. Venti giorni prima di ricevere a sorpresa l’incarico da Giorgio Simonelli, mi ero autoproposto per fare dei corsi in un istituto religioso. E non mi avrebbero neppure pagato. Poi ti chiama la Cattolica e… “quando pensi che sia finita…che fantastica storia è la vita!”. Insegnando s’impara. Ho avuto classi di alta classe, corsisti tra i 23 e i 45 anni, spesso ho imparato io da loro, con loro. Fare una lezione da una grossa scarica di adrenalina, proprio come presentare un programma radiofonico o televisivo".
Catanzaro è la tua città natale alla quale tu sei molto legato. Come hai accolto la notizia della nascita di una radio che raggruppa moltissimi speaker storici del capoluogo - che saranno presenti all’evento del prossimo 23 ottobre – e quale ruolo, a tuo avviso, deve svolgere una radio locale?
"Loro non lo sanno ma mesi fa, sempre attraverso Frank Teti, feci arrivare nei loro uffici un vinile di Lucio Dalla, a mo’ di buon augurio. La radio locale può essere ancora una bellissima palestra per chi vuole fare questo mestiere da grande, per chi vuole fare comunicazione. Che sia radio, tv, cinema, pubblicità o teatro. Bisogna tenere conto di una cosa: la radio ha retto l’onda d’urto del web, è al passo coi tempi, si è innovata. La radio locale non deve far passare il messaggio che fare radio sia “chiacchiera e basta”. Radio di parola vuol dire essere ficcanti in 3 minuti di talk, 4 al massimo quando hai un ospite in studio o al telefono. Un po’ come fece Battiato 40 anni fa quando uscì con l’album “L’era del cinghiale bianco”. Lo speaker deve essere bravo ad adattarsi alla musica che passa la radio e non adattare la musica ai suoi argomenti. Almeno non come regola. Io tutto questo non so ancora farlo alla perfezione, al microfono non sono ancora fresco come Linus, ad esempio. So insegnarlo, quello si. Ma pratica e grammatica sono spesso come il sole e la luna".
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