Fine dell’anno, Mengani: “Il rumore delle parole e il silenzio dei gesti”

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  28 dicembre 2025 09:03

di TERESA MENGANI

L’anno che si chiude lascia dietro di sé il consueto mosaico di buone intenzioni, errori clamorosi e qualche inattesa lezione di umanità. Come sempre, il tempo ha fatto il suo lavoro migliore: ha smascherato le parole vuote e dato peso ai gesti concreti.

Come ogni fine d’anno, anche questo arriva con il suo carico di bilanci, discorsi solenni e appelli accorati alla pace. Una pace molto citata, molto invocata e, con encomiabile coerenza, spesso tradita nei fatti. Perché la pace non è solo l’assenza di bombe: è anche assenza di paura, di ricatto, di precarietà permanente. E su questo terreno, i conflitti non mancano.

I potenti del mondo hanno dimostrato ancora una volta una straordinaria capacità: parlare di ciò che non praticano, con una sicurezza che rasenta il talento. Parlano di pace mentre alimentano guerre visibili e invisibili; di stabilità mentre normalizzano l’instabilità come condizione di vita; di crescita mentre intere generazioni faticano a immaginare un futuro che non sia una resistenza continua.

Questo è stato un anno ricco di dichiarazioni “storiche”, di promesse “irrinunciabili”, di strategie “necessarie”. Concetti ripetuti con tale frequenza da diventare quasi rassicuranti, se non fosse che, nel frattempo, intere popolazioni continuano a pagare il prezzo di queste indispensabili necessità. C’è chi paga con la perdita della casa, chi con un lavoro che non basta a vivere, chi con una pensione che non protegge più, chi con diritti sempre più fragili e sempre più condizionati.

Ma si sa: la pace, per funzionare, ha bisogno di sacrifici. Lo spiegano bene coloro che non li fanno.

Eppure, in questo teatro ben illuminato, qualcuno ha scelto un copione diverso. C’è chi ha lavorato per la pace senza usarla come parola d’ordine, chi ha praticato solidarietà senza allegarla a un comunicato stampa, chi ha protetto vite, diritti e dignità senza prima chiedere da che parte stessero o quanto rendessero in termini di consenso. A loro va il ringraziamento più serio, proprio perché non hanno sentito il bisogno di esserlo a ogni costo.

Quanto agli altri, quelli che siedono ai tavoli che contano, circondati da mappe, grafici, numeri e “bottoni rossi”, va riconosciuta una notevole abilità retorica. Riescono a parlare di diritti mentre li sospendono, di sicurezza mentre producono insicurezza sociale, di futuro mentre ipotecano il presente. Un esercizio di equilibrio verbale che meriterebbe almeno una disciplina olimpica.

L’ironia, in questo caso, non è un vezzo: è una forma di autodifesa civile. Serve a non prendere per buone verità confezionate con cura e a ricordare che il conflitto, anche quando non fa rumore, resta un conflitto. Che non servono le macerie per parlare di guerra, quando milioni di persone combattono ogni giorno contro l’erosione lenta ma costante dei propri diritti.

E tuttavia, sarebbe ingiusto chiudere l’anno solo con il disincanto. Perché, sotto la superficie dei grandi proclami, esiste un mondo che continua a credere e, soprattutto, a praticare un’idea diversa di pace. È il mondo di chi difende il lavoro come dignità, non come favore; di chi considera i diritti un fondamento e non una concessione; di chi esercita solidarietà senza aspettarsi applausi, e protezione senza chiedere permesso al consenso.

L’augurio per l’anno che viene è semplice e radicale insieme: che la pace smetta di essere una parola da usare e torni a essere un fatto da realizzare. Che significhi non solo smettere di sparare, ma iniziare a garantire. Che il potere impari, prima o poi, che governare non significa giustificare l’inevitabile, ma evitare l’evitabile.

Che la speranza torni a essere un atto concreto. Che il nuovo anno premi il coraggio della responsabilità, la forza della gentilezza e la lucidità di chi sa che proteggere gli altri significa, alla fine, proteggere tutti.

Perché il futuro non ha bisogno di eroi rumorosi, ma di persone capaci di fare la cosa giusta, anche quando nessuno applaude.

E se questo augurio suona ingenuo, pazienza. La vera ingenuità, a ben vedere, è continuare a credere che si possa costruire il futuro parlando di pace, mentre si accetta come normale una guerra quotidiana contro la dignità delle persone.


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