Franco Cimino: “Cinquant’anni di regioni, molti di meno di regionalismo”

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Franco Cimino
  07 giugno 2020 23:16

di FRANCO CIMINO


Oggi ricorre il cinquantesimo anniversario della nascita delle Regioni. Anzi, dell’entrata in vigore, dopo dopo ben ventitré anni dalla loro costituzione nell’ordinamento dello Stato repubblicano e democratico. Il ritardo della loro messa in attività già indica una loro sofferenza con la quale lo Stato e la politica non ha mai fatto i conti.

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È vero che l’avvio della democrazia in un’Italia devastata dalla dittatura e materialmente distrutta dalla guerra, fu difficile ed impegnativo, ma è anche vero che le resistenze alla democrazia, come i padri costituenti l’avevano concepita, fu grande. Anche per via degli interessi che in breve tempo si concentrarono in poche mani e in determinati territori. Il resto poi l’ha fatto la concezione del potere e le conflittualità che esso generava tra partiti, con i loro interessi elettorali, e uomini e fazioni, con i loro interessi molteplici e diversi, taluni nascosti. Questa resistenza e questa lentezza rappresentano una causa del ritardo e delle contraddizioni con cui il Paese ha camminato verso il Progresso e l’Europa, un’altra delle sue grandi intuizioni per garantire la Pace, la prosperità e la libertà a tutti i popoli europei.

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Ma cosa sono le regioni al di là di ciò che esse rappresentano nella impalcatura statuale, negli equilibri territoriali e nella cartina geografica? Ce lo dice l’art. 114 della Magna Carta:” la Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato.” Mettendo insieme Comuni e Province, esse rappresentano uno dei quattro pilastri su cui la Democrazia ha costruito la sua sua casa. La Democrazia italiana, lo ripeterò all’infinito, è la più bella del mondo e la più originale, pertanto, la più autentica, non solo perché al pari delle altre garantisce i diritti e le libertà dei cittadini( di più, la nostra li riconosce), ma perché si muove dentro due principi cardini: il pluralismo e le autonomie. Il pluralismo non solo delle opzioni politiche e culturali, come in altri paesi, ché è cosa assai scontata. Ma, delle istituzioni. Il nostro pluralismo si fonda sulla presenza di livelli istituzionali molteplici e diversi, come detta la Costituzione. È bello, vero? Sì, lo è tanto che potrebbe bastare, laddove l’occhio si fermasse sui caratteri estetici della Democrazia. E, invece, non basta affatto. Alla nostra Costituzione non basta. Essa vi aggiunge il principio di parità. I quattro pilastri non sono né diseguali né gerarchicamente disposti. Nessuno è superiore all’altro. Non è migliore, né più forte dell’altro. Neppure lo Stato lo è avendo ricevuto la straordinaria funzione di offrire loro l’organizzazione di base e lo spazio entro cui essi possano ergersi e impiantarsi.

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Bello, vero? Tanto bello che tutto questo potrebbe bastare. E, invece, non basta. Alla Costituzione non è bastato. Voleva davvero essere la più bella ed esemplare, il disegno architettonico al quale tutti gli altri paesi, ammirati, avrebbero dovuto guardare, magari per imitarlo. E così ha pensato all’autonomia. Infatti, lo Stato italiano, fanaticamente diciamo, si fa chiamare Stato delle autonomie. Ma autonomia in che senso? Nel senso più pieno e, perciò, originale. Se c’è parità tra le istituzione, questa è data dalla loro singola autonomia. Ciascuno delle nostre istituzioni basilari (da quelle quattro pure le altre numerose che ne seguono), è autonoma nell’ambito delle funzioni e dei ruoli ad esse assegnati e riconosciuti. Bellissimo, sì! Ma da dove viene tratta tutta questa vitalità e tutta questa articolata energia? Semplice: dalla necessità di valorizzare ogni ogni forza e ogni elemento presenti nel nostro Paese, impegnandosi, lo stesso, sul piano organizzativo, a metterli insieme per affermare il principio primo della nostra Carta.

E cioè, la piena affermazione della Persona e della sua creativa capacità di costruire nell’unità di tutti i cittadini l’eguaglianza e il progresso, nella libertà e nella ricchezza per ogni abitante. Cittadini, senza discriminazione alcuna, territori, tutti senza esclusione alcuna, risorse naturali e ambientali, identità locali e culture popolari, tutte di eguale importanza, a manifestare insieme il meglio del loro essere attraverso l’esaltazione della propria autonomia. Un’autonomia che non significa gelosa chiusura dentro i propri confini, in una sorta di autarchia regionalistica, tentatrice di separatismi deleteri. Significa, esattamente al contrario, valorizzazione di sé per la costruzione dell’unità complessiva. Della società, del Paese. E, per esso, dello Stato, che ha il dovere di promuoversi in ogni ambito e di difendersi da qualsiasi minaccia interna ed esterna. Stupendo, no? Sicuramente. A distanza di cinquant’anni, però, possiamo considerarlo un progetto compiuto? Possiamo tirare somme in attivo rispetto al disegno che era stato affidato agli italiani proiettati verso il Progresso e l’Europa? No, purtroppo dobbiamo registrare un notevole insuccesso rispetto agli obiettivi fissati dalla Costituzione. Un insuccesso ancora più fastidioso, perché offre a quanti non possiedono una cultura favorevole alla concezione di uno Stato ampiamente decentrato, il pretesto per rimettere in discussione l’assetto stesso della Repubblica e degli equilibri fra le sue istituzioni, la sua forma regionalista e, se non proprio la vita delle regioni, almeno le loro funzioni e i loro poteri.

È già partita da tempo questa battaglia. Essa trova spazio nel comportamento contraddittorio, e a volte provocatorio, che tutte le regioni hanno assunto in occasione della drammatica emergenza sanitaria che abbiamo vissuto negli ultimi tre mesi. Lo scontro, a volte volutamente cercato, con il Governo e le sue disposizioni normative, è sembrato più obbedire a logiche politiche di parte o alla ricerca di visibilità propagandistiche dei rappresentanti regionali che non un atto di responsabilità politica. Ovvero, un contributo alla necessaria unità dell’intera organizzazione dello Stato.

Ma le ragioni dell’insuccesso hanno motivazioni più profonde e lontane. Esse risiedono in quella incultura democratica che ha portato gran parte della nuova classe dirigente locale a considerare le regioni nuovi centri di poteri e se stessa, all’interno di quella istituzione, una nuova oligarchia. Che, tra l’altro, si è pure( utilizzando in modo cattiva l’autonomia legislativa) coperta di privilegi e di ricchi stipendi, allargando così il distacco tra cittadini e istituzioni e senza limiti il costo complessivo del funzionamento della Democrazia. Specialmente, quando la disinvolta utilizzazione delle risorse ha favorito l’estensione di quella questione morale che da decenni, nei vari passaggi della corruzione, attraversa in lungo e in largo tutta la penisola e tutte le istituzioni. L’insipienza, mista a indifferenza e arroganza, mostrata dal Consiglio Regionale della Calabria nelle sue ultime due sedute dedicate, con buona dose di ipocrisia e insincerità, alla brutta vicenda “ vitalizi”( ché di questi si tratta anche se chiamati con un altro nome), purtroppo ha inferto un altro duro colpo alla dignità e alla bellezza della Regione quale ente e anello fondamentale di quella architettura della Democrazia, che il mondo intero ci invidia. Il resto dell’insuccesso si appartiene in gran parte alle dure battaglie “ secessioniste”, non ancora concluse, condotte dalle regioni del Nord e dalla classe politica, che da vent’anni le governa sotto la spinta di un leghismo acido, stracarico di egoismi e rancori distruttivi non solo per la tenuta della sua unità sostanziale, ma anche della saldezza del contrastato spirito di Nazione. Tutti, in modo diverso, siamo responsabili di questo insuccesso. Il quale pesa enormemente sul progetto di democrazia che la storia ci aveva consegnato e nel quale gli errori compiuti hanno determinato una duplice pericolosa debolezza che ora li intreccia, dello Stato e delle regioni. Uscirne rapidamente non è solo un bisogno della Politica. È, soprattutto, una necessità della Democrazia.

L’Italia non si risolleverà dall’attuale sua grave condizione senza il rafforzamento delle sue istituzioni nel senso indicato dalla Costituzione. Arriveranno soldi in Italia. E tanti. Arriveranno dall’Europa e dalle tasche stesse degli italiani. Ma essi non produrranno crescita e sviluppo se non interverrà una nuova coscienza unitaria del Paese capace di costruire il futuro attraverso il più grande slancio di solidarietà che l’Italia abbia potuto conoscere dal dopoguerra ad oggi. Intanto, oggi, questo storico anniversario non è festeggiato. Il Parlamento e i Consigli regionali non si sono riuniti per celebrarlo. Al di là della dichiarazione del Presidente della Repubblica, nessuna parola o commento che possa dirsi degno di tale avvenimento. Coda di paglia o senso di colpa? Ignoranza sul tema? Può darsi. Più probabilmente, si tratta di insensibilità verso l’ideale di Democrazia che ci é stata tramandato, oltre che del bisogno di accomodamento su un sistema che soddisfatti gli appetiti di poterei di tanti notabili, parte dei quali piccoli piccoli come le periferie culturali da cui provengono.

 

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