di FRANCO CIMINO
Diavolo di un angelo che sei, o viceversa, Chiara Giordano! Non ti bastava Vittorio Grigori, il grande tenore di fama mondiale, a cantare le arie più belle del canto lirico e anche Noa, la cantante della Pace, alle porte della Certosa di Serra San Bruno, il Santo della Pace e dell’unità dei popoli? Eh, no, che non ti bastava! E così hai voluto darci un colpo forte in testa, perché la mente si aprisse al cuore, ospitando, da regina che sei del Parco Scolacium, e proprio lì, accanto alle mura dell’antica Basilica, sotto il cielo stellato di Borgia-Roccelle, la principessa della musica italiana, la bellissima Alice, voce rara in forza e timbro originale, perché ci portasse, da par suo, nel mondo magico di Franco Battiato, il poeta-filosofo, che cerca nel cosmo l’altra dimensione dell’uomo. Quella in cui vivere qui è per l’Oltre misterioso, nel quale tutto si compone in un ordine che trascende la materia corruttibile e libera definitivamente l’Amore, che abbiamo trattenuto, dimenticato, maltrattato.
Eh, no, che non ti bastava neanche questo. Neppure che una folla enorme di spettatori( quanti erano, duemila?) non se sarebbero voluti andare più da quella notte luminosa e calda, l’altro ieri. Una notte in cui hanno sentito vibrare l’anima del genio musicale italiano, proprio come lui desiderava e teorizzava, e poetava cantando, che così fosse o dovesse essere. Volevi fare, anche se sei ancora a metà del tuo ventiduesimo Festival d’Arminie d’Arte, il botto come nei fuochi delle feste delle due Madonna a Mare, quella di Marina di Catanzaro e quella di Soverato, che sembrano vigilare sulla bellezza della tua originale manifestazione di arti intrecciate, riconosciuta, e premiata, tra le più importanti in Europa. E cosa hai fatto? Hai creato il silenzio in una nicchia. Poche persone, questa volta. E al teatro di Soverato, la tua casa familiare. C’era il rischio che piovesse? Hai “ristretto” ancora quella nicchia, traferendo la magia dal teatro all’aperto a quello chiuso, riempiendolo. Quanti erano? Trecento? Un po’ meno? Meglio, perché quel silenzio si sarebbe dovuto trasformare in preghiera. E quella nicchia, in chiesa. Di quale religione? Di tutte. E di una sola che le rappresenta, quella umana. Che celebra l’uomo e l’Amore, che gli è stato donato e che porta con sé, anche se per strada lo smarrisce. O di notte lo dimentica, se non l’avrà sognato.
Che l’Amore nel sogna ti ricorda di esistere. E con te, che se lo sogni te lo vai a cercare. Come hanno fatto i poeti e i musicisti napoletani( quelli più attrezzati tecnicamente e quelli della spontaneità popolare), che dal sei-settecento, almeno per il tempo che ci è stato dato quale loro misura, hanno dato musica alle parole, melodia al canto, armonia ai sentimenti. E tanta forza a una delle culture più “ rivoluzionarie” che la storia umana conosca. Quella napoletana. La cultura che mette insieme i salotti dell’alta borghesia e i cortili delle case “ popolari”, i colti e gli ignoranti, i ricchi e i poveri, i palazzi sontuosi e i bassi, le nobildonne dell’ozio e le donne della difficile sopravvivenza. E, ancora, il Vesuvio e il Mare, rivoluzioni e restaurazioni, monarchia e Repubblica. Ricchezza antica e nuove povertà. La più importante Università e la precarietà delle scuole con i fatiscenti istituti scolastici e il numero più alto di evasione scolastica. Il coraggio delle partenze e quello della “ restanza”, per usare un neologismo caro al nostro raccontatore della terra, Vito Teti, l’antropologo. E la disperazione, che si ferma davanti all’immediata speranza, trasformatrice dei sentimenti contrastanti, anche l’odio breve e l’amore, in ottimismo. E l’attesa del lavoro che non c’è in ozio attivo e l’ingiustizia sociale in capacità “ fantasiosa” di arrangiarsi. Solo la corruzione dei panciuti servitori di un potere corrotto dall’origine, che hanno saccheggiato un territorio bellissimo, e la criminalità organizzata, chiamata camorra, che il più stupido pregiudizio vorrebbe far derivare dall’antica guapperia, solo questi danneggiano quella cultura. La quale è davvero tanto forte da restare quasi indenne e trionfante. E a farsi conoscere. E valere. Dappertutto. Nel mondo. Questa sera( ormai ieri sera) in questo mondo straordinario, esclusivo, unico sì, ci hai fatto portare, un po’ passeggiando, un po’ navigando, un po’ ballando, e sempre canticchiando sottovoce o col solo pensiero, e ballando con le gambe davanti al posto seduto, da quel grande artista che è Eduardo De Crescenzo.
Molti lo conoscevano per quelle ormai datate apparizioni nell’Olimpo della musica leggera, con quella sua voce graffiante e quelle sue canzoni dolci e dure allo stesso tempo, alcune di enorme successo, anche discografico. Ma pochi, forse assai pochi, lo avevano ascoltato, e dal vivo, nel repertorio della musica classica napoletana, verso la quale ha mantenuto, aiutato da studi molto approfonditi, un rispettoso rigore nell’ interpretarla per come le singole canzoni sono nate dalla penna di autentici poeti e dallo spartito di grandi musicisti. Hai ragione tu quando, nel presentare il concerto, hai detto che alleggerire quelle canzoni per renderle più gradevoli all’orecchio più distratto e ai botteghini, rappresenta un errore culturale e un torto verso la canzone napoletana, che è da sempre canzone d’autore. E, quindi, alta, colta, vera. Popolare. È cuore della cultura napoletana, come le tradizioni, l’arte e l’artigianato, la filosofia e le dottrine giuridiche, che a Napoli stanno di casa. È canzone che deve raccordare il canto bello con la musica buona, il ritmo con la melodia, la voce con l’anima di chi quelle musiche e quelle parole ha composto. Sono canzoni “d’Ammore”. Tutte. Dell’Amore vero. Pieno. Napoletano e universale. Universale perché è napoletano. Perché nessun popolo ha saputo portare l’Italia nel mondo, contagiandolo, trasformandolo, come ha fatto il popolo di Napoli e, poi, con esso, i popoli meridionali, quello calabrese fra tutti. L’Amore delle canzoni è Napoli, che è Amore. Amore della lontananza, per la famiglia e i figli, per i padri e le madri, sempre onorati. Amore vissuto e amore abbandonato o non compreso, mai però tradito. Solo raramente, ma con l’incanto poetico, la canzone napoletana ha trattato l’infedeltà e il tradimento. Più fortemente la gelosia, questa sì. Perché l’Amore delle canzoni è per Napoli. La sua storia. La sua Natura, con i paesaggi stupendi ancora. L’amore è il mare. Sono anche le barche per i pescatori e i bastimenti per le partenze più lontane. Sono le chiese, le piazze, i palazzi, i monumenti, sempre presenti in queste magnifiche celebrazioni. L’Amore è donna. Poche culture, poche tradizioni musicali, e anche diversamente artistiche( si pensi alla pittura o alla scultura) hanno saputo celebrare e onorare la donna. Sempre bella anche quando appare impossibile. Sempre dignitosa anche quando si mostra vezzosa. Sempre coraggiosa, specialmente quando si trova nelle più gravi difficoltà. Questa sera, al teatro di Soverato, un grande artista,
De Crescenzo, che onora il nome di battesimo che porta, e che quasi, per l’intensità teatrale con cui ha accompagnato la sua voce inimitabile, ci richiama quello del grande maestro, l’immenso Eduardo, il genio della commedia napoletana e del teatro mondiale, ci ha fatto viaggiare lungo questo percorso, tra mare e terra, di fecondità di sentimenti e pensieri, che è la musica classica napoletana. La sua voce ha commosso, la sua interpretazione ha fatto sentire quelle canzoni come poche altre volte sono state “ sentite”. Corde. Solo corde. Tese. Vocali, del pianoforte di accompagnamento( bravissimo il giovane pianista, anche in perfetta sintonia con De Crescenzo). Le corde del cuore. Quelle degli spettatori anche. Tanto tese che arrivavano su palcoscenico dalla luce fioca, leggera. La luce più propizia per quel silenzio che si è fatto preghiera, nella voce del grande napoletano. Quel silenzio “cantatore” che l’innamorato rivolge a Marì, in una delle canzone più belle in assoluto insieme a “ Era de Maggio”. Perché in Amore, a volte, le parole non bastano. Non bastano, eh, non che non servano. Come la poesia per le canzoni, che delle parole non possono fare a meno.
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