di FRANCO CIMINO
"Proprio oggi ho scritto a commento di un posto che li ritraeva insieme in un “ salotto” letterario a Tiriolo, Città dell’arte, dell’artigianato e della cultura, oltre che essere la lingua più stretta su due mari del territorio italiano, il seguente messaggio:” un grande più un grande non fanno un grandissimo, ma due giganti.”
Sembrerebbe più bello dire della fusione dei due in un soggetto unico e unitario. Invece no. Per me, no. E lo spiego. Domenico Dara e Felice Foresta sono due personalità uniche. E diverse benché somiglianti. E tanto che sembrerebbero gemelli. Si somigliano nel carattere. Almeno nella parte esteriore, visibile a occhio nudo. Apparentemente timidi, di poche parole al primo approccio, sorriso stretto e sguardo ironico, schivi e riservati. Apparentemente distaccati e anche fisicamente “ aristocratici”.
Lontani alla prima occhiata, ma se gli tendi la mano si gettano a capofitto sugli altri. Come su un materasso nei salti dei bambini. Ovvero, il mare nei tuffi dei giovani. O il riposo a occhi aperti di un anziano che abbia camminato molto. Loro si danno. E tutto di loro offrono. Specialmente, se a chiamarli sono i ragazzi delle scuole. Sembrano gemelli, Domenico e Felice, per altre caratteristiche. Il loro sguardo, innanzitutto. Sì, il loro porgere gli occhi. Alle cose. Alle persone. Alla realtà. Al mondo. Il mondo tutto. Quello della natura. E quello della cultura. Oggi, purtroppo, sempre più separati. Forse, pure in contrasto se non addirittura in guerra. Di questi sguardi non riescono a trattenerne il moto che li porta alla loro penna. E vi scrivono entrambi con un una “ dettagliezza” più che fotografica. La loro penna su tutto questo è delicata come i loro occhi che guardano.
Essi non giudicano, non condannano, non esprimono sentimenti negativi. Nè sulla realtà. Nè sulle persone. Dicono del proprio dolore sul dolore della prima. Dicono della debolezza, della distrazione, della soggezione e dell’assoggettamento, delle seconde. E anche di quella sorte di egoismo nato dall’incultura, per non dire dell’ignoranza, che accompagna la maggior parte dei calabresi. Ma sempre con rispetto. E con severità epurata dalla rabbia che acceca. Colti come sono, per non colpevolizzare gli uomini senza assolverli, rimandano le vere ragioni dei disastri, specialmente sulla nostra terra di Calabria, a fatti storici che l’hanno impoverita.
Rimandano, “alvarianamete”, a quella sorta di debolezza antropologica che avrebbe piegato le forze dei calabresi concentrandole solo sulla capacità di resistenza e sulla fiduciosa attesa di un salvatore, fosse anche quello della fede popolare che lo rappresenta nelle diverse simbologie religiose, tutte sospese tra superstizione e sentire “il profondo”. Coraggio e timidezza. Spinta alla ribellione e rinuncia alla rivoluzione. Individualismo e spirito collettivo. Identità perduta e identità sociale ricercata. Fiducia e disperazione. Voglia di cambiare e rassegnazione. Bianco e nero, i colori. Nessuna dialettica riscontrata, ma legge dei contrasti rigorosamente subita. Ma il bianco e nero, no. Sono i colori, qui, non del contrasto o della reciproca opposizione. Al contrario, sono i colori dell’armonia, quelli che non si possono scolorare o mescolare in un altro colore indistinto. Sono il nero e il bianco, i colori dei calabresi. Come il celeste e il verde, sono quelli del mare e dei monti, che si guardano e si amano. E insegnano ai calabresi il dovere di amarsi, mantenendo ciascuno la propria identità e la propria “ singolarità” senza negarsi al bene dell’altro. Monti e mare insegnano anche il come amarsi, qui da noi. Un come che non vuole farsi metodo. Al pari dei nostri filosofi, tutti, da Campanella a Giocchino, profondi e liberi, acuti e sregolati, come il calabrese è e deve essere. Ché sta qui tanto della loro bellezza. E tanto di quella complessiva della nostra terra. Il cui colore, sempre mutevole, si aggiunge al bianco e al nero. Colore mutevole per via delle tristi e felici stagioni che le passano sopra. Felici, quelle che, rispettando le loro leggi, colorano sia il mare sia i campi. Di grano, specialmente. Quando, in particolare, il vento che vi soffia sopra procura la dolce visione di un mare d’oro che muove come una danza le sue alte onde.
Domenico e Mimmo, sono gemelli, perché amano questa Calabria. L’amano più di altri perché la conoscono. L’amano perché la difendono. E con le armi dei loro sguardi amorevoli e delle loro parole. Poetiche. Profetiche. Antiche e nuove nel tentativo, forse neppure cercato, di mettere insieme l’antico e il nuovo, il passato e il futuro partendo dal presente che li unisce. Sono gemelli perché non separano mai la terra dai “ terroni”, il mare dai pescatori. E i borghi da chi li vive, in quell’alternanza tanto cara a Corrado Alvaro e a Vito Teti, che mette insieme inseparabilmente “ migranza” e “ restanza”. Necessità di andare, voglia di tornare. Benedizione e maledizione. Radici “ introncabili”.
Terra che ti riprende, che sa che non l’hai tradita. Domenico e Felice, sono gemelli, perché amano tutto questo. Conoscono tutto il piccolo grande nostro mondo. Sono gemelli, perché ne scrivono con eguali tensione e visione. Sono gemelli, perché sanno raccontare di noi e di quelli, persone e luoghi, sconosciuti a noi, come pochi hanno saputo fare qui. E pochissimi sanno fare nella e della propria realtà. Sono, però, gemelli diversi, perché il loro stile narrativo è diverso, la forma del loro linguaggio è diversa. Il loro fermarsi a un punto del racconto è diverso. Come diverso è lo spazio in cui la loro narrazione ti porta. Quella sorta di confine in cui il lettore non sa se la storia finisce o se sta per incominciare. Quel limite in cui, forse, viene chiesto al lettore di continuarla o di finirla lui stesso. Sono ancora, i due, gemelli pieni, perché oltre allo scrivere hanno la passione della lettura. Ché mica è facile leggere! Loro due hanno letto davvero montagne di libri, senza i quali non saprebbero vivere, io credo. Ma si badi, cosa importante, al fatto che, inevitabile per chiunque scriva, la loro scrittura sia sì “ contaminata” ( oggi si dice così), ma in ciascuno dei due resta originale.
Per cui( lo si lasci dire pure a me che già, senza mezzi critici e conoscenze specifiche, mi sono preso di molta “ confidenza” con personalità e campi “ rischiosi”) chi legge Dara ha letto lui, chi legge Foresta, ha letto lui. E non altri in loro. E siccome anche questa volta l’ho fatta lunga( la colpa è loro, però), chiudo con un altro mio azzardo critico. Domenico e Felice sono gemelli diversi, perché nel primo c’è lo scrittore pieno con nascoste tendenze al poeta. Nel secondo, c’è il poeta pieno, innato nella sua tendenza allo scrittore. Comunque, quale che sia l’interpretazione della loro scrittura, narrativa o poesia, che scrivano sempre. E non si stanchino mai di farlo".
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