Franco Cimino: "Il Covid di ritorno tra stupidità manifesta e responsabilità repressa. E quei padri col cuore in gola"

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Franco Cimino
  31 ottobre 2020 16:35

di FRANCO CIMINO

Ha fatto appena in tempo il maledetto virus a riaffacciarsi dall’estate, festosamente celebrata in Italia, che mi è stato possibile di trattenere a Catanzaro una delle mie due figlie studentesse alle Università di Milano. L’altra, per ragioni immodificabili della sua facoltà, ho dovuto lasciarla andare nella Città ricca che ricchezza a tutti promette. La minaccia, che sempre più cresce in quel territorio, mi fa passare notti completamente insonni e giornate con il telefonino davvero attaccato all’orecchio e non solo tramite gli auricolari. La mia è la condizione di ogni genitore che si trova con i figli lontani da casa e in Lombardia, in particolare.

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Nella mia mente scorre di continuo una vecchia canzone di un cantautore che io amo molto, Gianfranco Riccelli. Lui la canta sempre, e ora ne capisco il perché, in ogni suo concerto pur diverso di anno in anno. L’ha scritta molto tempo fa. Contiene poesia e politica all’interno di una musica melodica e un linguaggio ironico. Mi è sempre piaciuta più dello stesso piacere di ascoltarla e, tra l’altro, dalla sua voce, roca e profonda. Anche questo, oggi, capisco. E capisco quel ripetuto passaggio della canzone, che oggi faccio più mio e con le mie labbra ripeto: "hanculu a Milano”. Come nella canzone, anche in me esso è un grido di protesta e di amore per ciò che quella Città ci toglie e per il tanto che intorno ai nostri figli costruisce.

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Pertanto, il mio animo inquieto di padre, rimbalza come una palla rigonfia di preoccupazione su quelle note. E così il Covid si appalesa di più non tanto come una minaccia per se stessi, ché se si deve andare da genitore si vada quando il nostro tempo lo dirà, ma sui propri figli. E siccome ogni ragazzo è figlio nostro, la preoccupazione è rivolta alla tenuta sociale e al futuro del nostro Paese e dell’Europa. È solo da qui che muove quella responsabilità che sembra non aver attecchito sulla maggior parte di noi, gente, cioè, che nelle tragedie collettive non resta a lungo popolo o popolo dimentica di doversi fare.

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Il Covid non è solo una temuta malattia, è un dolore grande. Il tuo personale si riflette e si allunga su quello che ritorna nelle corsie degli ospedali e in quelle sale mute e chiuse dalle quale non tutti escono con le proprie gambe. È paura per i tuoi ragazzi che hai mandato in guerra. Un’altra, oltre quella di un mondo incendiato da mille conflitti e reso fragile da quell’odio incomprensibile, che si libera in ogni luogo in cui le persone credono di trovarsi più al sicuro. È preoccupazione, oggi, più grande, perché anche un solo negozio chiuso sottrae luce alla speranza. Non solo di un’economia florida, ché non sempre significa ricchezza per tutti nella giustizia sociale fondamentale per la vitalità della Democrazia. Speranza, invece, per un avvenire di pace. E di felicità, quella cui ogni uomo ha diritto. Su questa terra, creata non per espiare peccati, ma per realizzare la bontà di Dio, per credenti. Ovvero, la compiutezza della Ragione, per i fedeli dell’intelligenza umana e della perfezione della Natura.

Per tutti al centro c’è la vita umana, il bene non più prezioso e più amato, ma fondamentale. Inalienabile. E mai negoziabile ad alcun livello che non sia quello della sua tutela e della celebrazione della sua dignità. È nel valore assoluto della vita che trovano motivazioni, e non giustificazione, altri valori quali la salute e la libertà. Essi vanno concepiti come essenza della stessa e non quali mere concessioni di un potere esterno che la dignità della vita non sopporta. Tali ragioni rendono insopportabile, delittuoso, che taluni, per esibizionismo della propria vanità pure venduta al mercato delle diverse convenienze, giochino con la vita delle persone sia attraverso il riduzionismo rispetto alla cattività del Covid, sia mettendo su una bilancia truccata i dati della malattia e quelli delle asserite più gravi conseguenze economiche e sociali conseguenti.

I numeri dell’emergenza sanitaria sono cresciuti dall’inizio di settembre ad oggi. In maniera esponenziali si diceva che sarebbe cresciuti. Ciononostante, si è andati avanti, da parte di tutti i detentori di responsabilità, con una timidezza, diciamo, inversamente proporzionale all’aggressività dei “ riduzionisti”. Molti di questi hanno approfittato della buona fede dei sofferenti economici per gettare sul fuoco della grave situazione la benzina delle conflittualità sociali. Quelle, soprattutto, da lungo tempo sopite anche sotto la forza persuasiva di quei poteri ai quali certi fomentatori d’odio hanno asservito, in diverse sedi, anche istituzionali, la loro immagine e la loro attività.

Li abbiamo visti, costoro, quasi tutti i giorni passare da una televisione all’altra e urlare cose senza senso e vuote di ogni conoscenza medica e scientifica. Li abbiamo sentiti dire che il Covid era un’invenzione di un potere autoritario, magari straniero, o di un presidente del Consiglio mediocre con aspirazioni da ducetto in doppio petto. Li abbiamo sentiti dire che il Covid era poco più che un’influenza, i cui morti ogni anno sono di gran lunga più numerosi di quelli che una propaganda di regime, alterati o falsi, illustra quotidianamente sul Covid per giustificare le progressive sottrazioni delle libertà degli italiani. Li abbiamo sentiti dire che le mascherine non solo non servivano, ma che sarebbero state pure dannose; che bisognava rifiutarsi a limitare i propri spostamenti, le proprie frequentazioni e relazioni sociali e che per dare una lezione a “ quei coglioni” sarebbe stato utile fare esattamente il contrario di quanto da loro richiesto. Questo e altro ancora abbiamo sentito, in televisione e sui social, urlare con espressioni pesanti e volgari e tante offese e ingiurie rivolte agli “ allarmisti” di regime.

La sensazione che le persone sensibili, i cittadini educati, hanno provato sarà stata, di certo, come la mia, di disgusto e di insofferenza. Ma le immagini che i social hanno ampiamente diffuso( non so se anche alcune, le stesse, emittenti televisive, le hanno trasmesse pure) di un uomo pubblico, parlamentare da più di vent’anni, che della sua vasta popolarità continua a fare la propria fortuna politica ed economica, che si reca in una piazza dove civilmente protestavano operatori della ristorazione per incitarli alla provocatoria violazione delle norme sulla chiusura del locali negli orari serali, hanno provocato in me rabbia e disgusto. Sentire la stessa persona accompagnare la sollecitazione a fregarsene del provvedimento del governo, con gli epiteti di “idiota, coglione e rompicoglioni” indirizzati al presidente del Consiglio, sapendo di non doverne rendere conto a nessuno e neppure alla legge, procurano in me rabbia e disgusto. Ma anche un senso di vergogna per la violenza che si abbatte su un Paese costretto, pure nei momenti più drammatici, a dividersi e a volersi male in quella brutta fratellanza che rimanda a Caino e ad Abele.

I numeri di ieri dicono di trentunomila nuovi contagiati e duecento vittime, di crescita raddoppiata dei ricoveri ospedalieri e della già avvenuta occupazione di metà dei posti in terapia intensiva e rianimazione. Il mio disgusto e il mio senso di vergogna, si fanno dolore. E ribellione anche nella semplice voglia di tirar un pugno sul naso di qualcuno o sulla porta che mi capiti a tiro. Voglia che la mia educazione democratica e personale, però, subito annulla, trasformandola nella esortazione agli italiani ad unirsi in questa ancora dura lunga battaglia e a munirsi di responsabilità piena e di fiducia verso la medicina e le istituzioni. E di quell’amore verso il prossimo, a partire dal più vicino che molto da loro dipende. Il pensiero che ciascuno di noi abbia potuto, senza alcun eroismo, salvare anche una sola vita umana, quella di un vecchio soprattutto, ci rende uomini degni della umanità che ci è data e costruttori del domani. Inoltre, salva i padri e le madri dalla insopportabile angoscia di sapere i propri figli costretti a stare in trincea lontani da loro e dalla casa di sempre. Quella dei ritorni accoglienti e protettivi. E delle pazienti attese di vederli arrivare.

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