di FRANCO CIMINO
È fatta! Dall’altro ieri siamo in finale. Chi se lo sarebbe mai immaginato e chi ci avrebbe scommesso due lire del vecchio conio su una squadra che , a detta di tutti, si presentava con limiti enormi ineliminabili? Neppure uno o i soliti cinque pazzi, che, pur di spararla grossa in quel bar dello sport dove nessuno li calcola, o soltanto per fare il “ bastian contrario “ l’ha di certo gridato al mondo. È anche vero che adesso non ne trovi uno che non dica “ te l’avevo detto che avremmo vinto?” e di Mancini, che migliori allenatori di lui nel mondo non ce n’è, Mourinho è un incapace e Conte, se fosse rimasto alla guida della Nazionale, col cavolo che avresti visto una delle città dell’Europeo! Bene bene, siamo italiani e facciamoci accettare questa bella caratteristica, spero non soltanto nostra. Ieri sera ci siamo messi tutti nuovamente davanti al televisore in attesa dell’altra finalista, la squadra che ci potrebbe negare o facilitare il sogno che inseguiamo dal millenovecentosessantotto, ben cinquantatré anni fa. Ero molto giovane, eppure me lo ricordo. Quegli europei si tennero in Italia. La finale, che raggiungemmo dopo un bel colpo di “ monetaria” fortuna nei confronti della URSS, a Roma. Giocammo, nella partita ripetuta due giorni dopo un interminabile uno a uno, contro la fortissima Jugoslavia. Vincemmo due a zero grazie ai gol bellissimi di Anastasi, il siciliano della Juventus, e il sardo per amore, Gigi Riva.
Due meridionali, quindi, in vetta all’Europa con altri eroici campioni rimasti per sempre nel cuore dell’Italia del pallone e non solo. Ne ricordo alcuni, quelli che recitavamo a memoria come una poesia alle elementari. Anzi, la dico proprio tutta, quella formazione, che suona bene: Zoff, Burngnich, Facchetti, Rosato, Guarneri, Salvadore, Domenghini, Mazzola, Anastasi, De Sisti, Riva. Il CT di quella mitica panchina, era Ferruccio Valcareggi, un allenatore di qualità precedentemente poco riconosciute, ma che al calcio ha dato tutta la vita e alla Nazionale quella intelligente bonomìa, un rigore paterno e un coraggio di gladiatore. Il tutto applicato al calcio semplice di quei tempi. Torniamo, però, a ieri, è giunto il momento di ripetere quell’impresa, oggi addirittura più difficile per via di un livello tecnico individuale di gran lunga inferiore a quello dei Riva, Mazzola, De Sisti e, perché no? dei Guarneri e dei Rosato, per non dire del combattivo umile “ operaio della pelota ”Domenghini, l’umile soldato delle grandi battaglie.
E, allora, mettiamoci nella posizione più congeniale: essere nel contempo l’intenditore per eccellenza, il bravo CT del bar sotto casa, e il più acceso tifoso della curva sud. Si gioca Danimarca-Inghilterra. Due squadre non date per finaliste dai pronostici, tutti fermi insistentemente sul quartetto delle meraviglie: Spagna, Portogallo, Belgio e Francia. Una pronostico favorevole aggiuntivo era per la Germania se ci avesse però stupito di una sua trasformazione agonistica delle ultime settimane. Arrivano alle semifinali, a sorpresa, squadre davvero inattese, anche dagli stessi propri tifosi. Sono l’Italia contro la Spagna, la sola resistente, e Inghilterra contro la Danimarca. La nostra partita, e chi se la scorderà mai, sappiamo tutti com’è andata a finire. Le altre due, quando le pensiamo, se la devono ancora giocare. Noi ci siamo, attenti e appassionati. Da intenditori affermiamo con sicurezza che l’Inghilterra è troppo forte, non può che vincere a valanga. Da tifosi, degli azzurri naturalmente, pendiamo decisamente per i rossi danesi. Auguriamo loro una buona dose di fortuna che li porti, più stanchi di noi e assai meno forti dei bianchi della regina, in quello stadio di Wembley, che sarebbe altrimenti dominato da sessantamila, meno seimila, inglesi “ assatanati”. Per noi italiani, i meridionali soprattutto, calabresi compassionevoli in particolare, che parteggiamo sempre per il più debole e sfortunato, c’è un sentimento in più che fa pendere il cuore verso i danesi.
Non è solo la simpatia naturale nei confronti di un paese e di un popolo simpatico e originale, lontano, peraltro, dalla nostra cultura e dai nostri modi di fare nella vita quando, specialmente, essa si fa più difficile. C’è il dramma, per fortuna superato con la salvezza della vita, del loro migliore calciatore, all’Italia già noto per la sua militanza nell’Inter dell’ultimo ritrovato scudetto, quel Christian Eriksen, rimasto esanime, davanti agli occhi del mondo, sul terreno nel corso di Danimarca- Finlandia. Vincere ancora, fino a domenica alle ventuno, però, in nome di quel campione sarebbe stata un’autentica impresa “ dello spirito sportivo”. Quello nel quale il gesto tecnico si fonde nella fatica fisica, l’ansia per la vittoria nella gioia di una vittoria umana, la squadra per se stessa in tutta la squadra per uno solo, i vincitori sul campo nel vincitore in corsia, il calciatore nell’uomo. Ecco, contro ogni competenza ho fatto un tifo da matti per la Danimarca, la squadra sulla carta più debole. Non solo la squadra più conveniente per noi. E, però, forse perché non si può vincere due volte con due squadre diverse in un campionato europeo o forse per altro motivo non prettamente cabalistico, i rossi “ abbiamo” perso. Hanno vinto i guerrieri bianchi, squadra davvero pericolosissima( e qui torna il tecnico da bar), con una intelaiatura robusta e tanti elementi di indiscussa classe dal vasto repertorio tecnico. Sono, tuttavia, convinto( qui tecnico e tifoso sono un tutt’uno) che la nostra Italia, intelligente e umile, orgogliosa e combattiva, possa farcela. Con un’altra dura sofferenza e con un’altra pesante fatica, ma può vincere. E con ampio merito che da tutti sarà riconosciuto, anche se ancora occorresse un pizzico di fortuna, il sale, diciamolo francamente, di ogni successo buono, quello pulito.
Detto questo, una raccomandazione. La rivolgo, in particolare, a quanti sui giornali e i social stanno pensando a trasformare la finale del campionato europeo in una sorta di “ guerra” diplomatica o diversamente guerreggiata tra l’Italia e il Regno Unito. Una guerra condotta “coraggiosamente” a nome di tutti gli altri Paesi della Comunità Europea, nei confronti di un ex alleato che ci avrebbe tradito. E tradito, per logiche di tipo economicistico fondato sull’egoismo di una sola Nazione, tra l’altro ricca, che non avrebbe più voluto farsi carico dello spirito di solidarietà su cui si fonda la cultura della nuova Europa democratica, che auspichiamo. Insomma, la guerra tra Europa e Brexit, come da qualche parte è stato titolato, per fargliela pagare a quelli lì tutto whisky, birra e distintivo della Regina. E un’altra raccomandazione ancora. Quella che ci porta in verità più lontano, al tempo in cui, cioè, la Nazionale ha preso a vincere in continuità. E questa: non sono gli azzurri in campo o un tappeto di bandiere tricolori sventolate tra stadi e piazze, a determinare il riscatto di un Paese che ha subito durante la pandemia danni enormi, forse mai calcolabili e mai riparabili compiutamente, se si considerano le centrotrentamila vittime del Covid e gli oltre cinquecentomila sopravvissuti che porteranno nel corpo una sofferenza davvero “ stancante”.
Non sarà un campionato europeo che ci salverà dalla crisi economica più pesante della nostra storia recente. Non sarà una vittoria in finale che ridurrà le diseguaglianze accentuatesi nel corso di questi diciotto mesi “ tormentosi”. Non sarà una coppa innalzata verso il cielo che ci farà uscire da una pesante questione morale, che ha nella crisi della politica e nell’indebolimento delle istituzioni il punto di maggiore pericolo per la tenuta della nostra Democrazia. E non sarà, di certo, un tifo sfegatato, un grido unanime “Forza Italia”, un abbraccio strettissimo fra i tifosi, e l’infinito stretto corteo nelle strade del dopo vittoria, che cancellerà tutte le divisioni, le più feroci perché condite da odio vero, disseminate in tutto il Paese e che coinvolgono tutte le sue parti, da quelle politiche a quelle istituzionali, da quelle territoriali a quelle sociali. Fermiamoci, questa volta. Asteniamoci dal confermarci italiani dalle emozioni accese sulla memoria corta. Almeno domenica. Facciamo in modo che Italia-Inghilterra sia solo una partita di pallone, la più importante degli ultimi tempi di un calcio sospeso e represso. Ci farà bene alla mente e all’anima. E c’è la godremo di più. Specialmente quando l’avremo vinta.
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