Franco Cimino: "La terra di Bruno tra le braccia di Carlo, il sogno e la fatica"

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images Franco Cimino: "La terra di Bruno tra le braccia di Carlo, il sogno e la fatica"
Franco Cimino
  28 luglio 2020 19:01

di FRANCO CIMINO

Un giorno, di questo metà mese, quel giorno, che era di pomeriggio avanzato, ho visto, sopra Castagna, in alto rispetto ad essa, più in basso un po’ di Bianchi e dei delicati monti che la sorvegliano, una campagna bellissima, trasformata in poco tempo, da selvaggia e abbandonato com’era, in una moderna azienda “ agricola”.

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Una campagna baciata dal Supremo Creatore, o da chi per Lui, posta proprio davanti alla antica Basilica di Corazzo, altro magnifico luogo trascurato dalle istituzioni e dal sistema economico. Da sopra la si veda per intero che quasi viene voglia di abbracciarla o di tuffarvisi a pesce. Una spettacolo della natura e dell’arte e della storia immerso nella natura che, ancora incontaminata, ha vigilato su quella storia territoriale molto più lontana di quanto la si lasci immaginare, nonostante gli scritti e le ricerche del compianto storico Salvatore Piccoli e le battaglie giovanili di Federico Talarico e dei suoi quattro amici della sua giovinezza a Castagna.

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Le mani, che hanno compiuto il miracolo su questa campagna, sono quelle di un ragazzo che la natura ama e dei suoi prodotti vorrebbe farne non solo la ragione dell’impresa economica avviata, ma anche il mezzo per migliorare la qualità della vita e dell’ambiente, valorizzando anche quella cultura dell’alimentazione e del paesaggio intorno alla quale ruotano tanti altri elementi della cultura calabrese.

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Si chiama Carlo e, tanto per restare nella sua vocazione, di laurea buona ha la veterinaria.

L’azienda Arcuri (il cognome di Carlo), la sua, totalmente sua, ormai nota, lavora su una specie animale particolare della nostra regione, il maialino nero di Calabria. Dall’allevamento alla trasformazione della carne, insaccati e altro, previa la prima messa sul mercato di quella fresca( particolarmente richiesto lo stinco), questa azienda si sta distinguendo, in una realtà ancora molto lontana dal concepire l’agricoltura tutta ( anche questo settore strettamente legato alla più antica tradizione), quale volano per lo sviluppo e la modernità sulle risorse antiche. Ma non è per questo mio spontaneo, e come sempre libero, apprezzamento per le belle cose della nostra regione, che andrebbero da più parti meglio sostenute, che oggi scrivo. E neppure del fatto che il raccordo delle zone interne con l’economia del mare possa trasformarsi nella più dinamica nostra ricchezza( penso a un unico percorso turistico lungo la linea mare-monti, sole e frescura, ambiente e territorio, poesia e gastronomia, religione e filosofia, ricerca e università, beni culturali e tradizione, musica popolare e letteratura, persone e persona). Scrivo, oggi, perché è il ventotto luglio, all’ottava ora passata da quella di una notte di undici anni fa che chiuse il sole al giorno. In quel pomeriggio della mia visita all’Azienda mi colpì la vista di quel ragazzo, Carlo, il proprietario, un ragazzone alto e magro, tutto rivestito di un colore simile a quello della terra cangiante sotto il modificarsi della luce del cielo. Capelli, i pochi rimasti, neri, occhi scuri, pelle scura quasi nera, la pelle che più racconta la nostra origine meridionale del Sud più basso del pianeta.

La pelle del sole, della vita all’aria aperta. Della fatica dura e del dolore. Del sudore e della speranza. Della siccità e della fertilità. Il colore che ha bisogno delle mani dell’uomo sull’aratro e del concime, ma anche di una forza che “ piova” dal cielo a ridare energia. E la speranza che i frutti arriveranno, come la gioia dal dolore e la felicità dall’abisso. Carlo porta addosso il colore della terra, che è vita. Amore, che dalla terra si libera per l’aria e gli occhi della gente. E muove da se stessi, terra genitore e genitrice, ai propri figli. Carlo lo scorgo in lontananza, seduto su un masso, alla prima frescura di un albero generoso. Testa raccolta tra le mani a forma di riposo e di pensamento, lo sguardo al cielo, sopra la montagna, spalle alla valle. Come a volersi impedire, in quel momento di riposo dal primo mattino che stava lì, la vista di un preciso punto geografico, invisibile a tutti tranne che a lui, ché davvero da questo promontorio si vede tutto fino alla Marina di Catanzaro. Alle mie spalle, invece la madre, una regina, una eroica combattente senza spada, un’autentica forza per la vita, alla perenne ricerca di quella strappatale dal petto.

Scendendo, di qualche centinaio di metri nascosto da reti e una selva di piante d’origano, di erba verde e fiori, anche lui nero più annerito dal sole, che a torso nudo prendeva stranamente per difendersi da esso, Brunetto, il padre. Cura il suo orto di mille frutti della terra, e me ne porge uno, il più dimensionato. Loro tre sono quella terra. Il loro pieno affidarsi ad essa è molto di più che un lavoro creativo e gratificante. Molto più che una passione e vocazione, come di certo lo è per Carlo (Gemma è la maestra del paese, come lo furono i suoi genitori, Brunetto è stato fino a pochi mesi fa funzionario del Comune). È molto più che l’ambizione di costruire qualcosa di importante e produttivo, capace di creare ricchezza per il comprensorio e benessere per la famiglia. Molto più che una sfida a questa regione immobile, che scoraggia i tanti giovani che promettono talento e volontà. Molto più che la promessa da mantenere al sogno di bambino. Quella terra è la terra di Bruno, il loro figlio e il fratello, il cui sogno di cambiare la terra di Calabria, facendo rivivere la terra che è madre, è stato interrotto in una notte senza alba, quel ventotto luglio di undici anni fa. Bruno non aveva ancora trent’anni e già era tutto il mondo che si portava dentro. Professore di greco e latino, apprezzato da colleghi e amato dagli studenti, intellettuale dalle profonde originali riflessioni, attivista dei diritti umani e pacifista, marxiano e/o comunista, libertario e liberatore, tenace sostenitore della battaglia per l’acqua pubblica.

Sindaco innovatore di Carlopoli, amatissimo dai suoi concittadini. Politico democratico dalle grandi visioni, pragmatico amministratore, idealista e sognatore. Quella terra, ora azienda agro-alimentare, è anima che si muove, frammento di una cultura, parte di una politica, emblema di un ideale, embrione di un progetto. Anima, cultura, politica, ideale, progetto, di Bruno Arcuri. Un grande uomo andato via troppo presto per restare sempre giovane. Qui, per sempre, operando efficacemente con la sua presenza invisibile e con gli occhi timidi e silenziosi di Carlo, il fratello, che da quegli alberi attende di vederlo tornare.

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