Franco Cimino racconta Francesco Colella ed il suo incontro "di figlio"

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Franco Cimino
  13 ottobre 2024 16:53

di FRANCO CIMINO

Lui arriva piano, con quella sua camminata strana, un po’ ramo al vento della Città, un po’ corpo esile e leggero che dondola allo stesso vento, un po’ alla “ tenimi ca cahju”. Scende che sembra stanco dal suo piccolo “paese” dentro la città, un poco in alto un po’ più a lato, sulla destra salendo. Non c’è nessuno per la strada in discesa. L’ora è quella del non far niente, qui, o del vecchio “ ma duva su i genti, e chi fannu?” Le mani intrecciate dietro alla schiena, per farsi vecchio o forse per rassomigliare a qualcuno, che fu per lui sempre vecchio. O per non cadere, cercando stabilità, “ ca stu ventu, all’affacciata é chiù forta e m’arrumbula. “ Chissà! Ma a lui questa camminata solitaria è gradita, forse cercata. Arriva presto, il teatro è aperto già. C’è solo, come sempre, guardiano a difesa delle mura o l’innamorato sotto al balcone dell’amata, l’altro Francesco, bello come lui. Sensibile quanto lui. Sguardo tenero e sorriso ammiccante.

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Capisce tutto e non gli si avvicina. Lui sale i tre gradini, poi ne scende cinque, entra nel camerino e si siede sulla poltroncina, davanti allo specchio. Ma non lo guarda. Non si guarda lì dentro. Tiene gli occhi chiusi. A lungo, come se dormisse un sonno stanco. Come se sognasse un sogno bambino. Quando li riapre li porta in alto. Sul soffitto. Bianco, un po’ screpato. In quelle “ scorciate” simili, senza il rosso del sangue, alle ginocchia delle mille cadute di quegli anni lontani, quando per andare dietro a una palla facevi della strada o del cortile lo stadio olimpico in cui sognavi di giocare un giorno da campione. Forse, lui no. O perché lo stadio era ancora il vecchio militare, giallorosso com’era, e come è, dalla sciarpa al cuore. O perché andava altrove. Le sue ginocchia si sbucciavano per correre al cinema teatro, probabilmente questo in cui è appena entrato. Ma il rimprovero, tornato a casa, era lo stesso chi “ni pigghiavamu tutti:” u vì ca cadisti n’atra vota, mo’ chi vena patritta u senti. Veni cà, ti mintu u spiritu omma ti vena l’infezziona.”

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Guarda il soffitto e pensa tra sogno e nostalgia. Immagini sbiadite e velatura delicata su quei visi, che sono fermi nel sorriso stretto sulla tristezza, gli scorrano davanti. Passano le ore, che sono un giorno intero o un un tempo che non passa mai. Una voce discreta lo avvisa che i due compagni sono già pronti e tra poco si va in scena. Il teatro è strapieno, gli dice. Tutti già seduti. Solo mormorio gentile, non chiasso fastidioso. Lo senti già che oltre la buona causa, creata in felice accoppiata con quella splendida donna sempre giovane sugli anni mai stanchi, quella gente è venuta per lui. Lui è quella gente. Lui è, ancor più, quella che a teatro non viene, quei ragazzi che restano chiusi nelle loro periferie dell’esistenza. Ché molti di loro, e tanti noi ormai vecchi, vivono in questa città dei dieci, dodici paesini lontani. Che non si parlano come, invece, hanno fatto, felicemente incontrandosi, i due protagonisti della tenera storia rappresentata sul palcoscenico delle nude scene.

“Francesco, é ora, vieni!”- “ Come, devo venire? Adesso, ma non sono pronto!”- Si sarà detto. Il cuore batte forte. Tremano le gambe. La folta chioma va in subbuglio, come la mente dei pensieri. Tutto esattamente come il suo primo giorno sulle quattro tavole, il primo giorno di scuola. Il battito del suo primo amore. La nascita della figlia. Tutto trema come quel momento delle due notizie. Deve andare, il pubblico lo aspetta. Va. Entra in scena, passo più lento di quello della camminata del pomeriggio. E l’applauso parte. Anche questo è per lui. Non c’è molta luce sul quel metro che raccoglie lui e la sua brava compagna. Il silenzio, che precede il dialogo, è troppo lungo perché sia di scena. Molti ne hanno colto il significato.

“E dai Fra’, parla!” Ho detto a voce piena, che sono stato “sentito” da chi mi stava vicino. Parla sì, il dialogo scorre di lentezza voluta, di intensità forte. Ma lui non guarda ancora davanti a sé. Solo sempre il viso dell’attrice, che, con la sua ironia, ci cattura. Lui anche, per sua fortuna. Poi, scende il buio, squarciato solo dalla luce dei due telefonini. Il suo lo lancia in platea. Ai primi posti. A quei due! Cercava la sua mamma e il suo papà. Gli si stava rompendo il cuore. Poi, li ha visti. Come sempre. Ha visto i loro occhi puntati sui suoi, come tutte le altre volte in questo stesso teatro. Il loro. Il suo. Ha riposto nascostamente le sue lacrime nella tasca( destra del pantalone, l’ho visto, eh!) e ha ripreso a volare.

L’opera teatrale più bella mai vista qui, l’ha scritta e recitata lui, Francesco Colella, l’attore che fa ridere e piangere, sopra il suo dolore di uomo. L’opera dell’Amore. Di un figlio per i il padre e la madre, che vanno via ma restano se li cerchi. Ieri sera sul palco i due ragazzi del racconto si parlano e si incontrano. In tutto il teatro, invece, padre-madre-figlio si sono incontrati. E senza bisogno di parole.

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