Giustizia, la riflessione di Maria Grazia Leo: "Garanzia per tutti, contro ogni pregiudizio"

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Maria Grazia Leo
  06 aprile 2022 18:59

di MARIA GRAZIA LEO

Mentre ancora continua la guerra in Ucraina, possiamo forse dire parafrasando che in Italia si è quasi conclusa un’altra “guerra” in miniatura, una guerra giudiziaria fatte di carte bollate, inchieste, processi, ricorsi, ma soprattutto una battaglia del cuore portata avanti con dignità, passione, dolore, emozione e tanto, tanto coraggio da una famiglia, la famiglia Cucchi composta da papà Giovanni e da mamma Rita; da una sorella, Ilaria Cucchi; da un tenace e perspicace avvocato Fabio Anselmo. Una “guerra” portata avanti contro negligenze, depistaggi, dichiarazioni false, silenzi e omissioni, verità sospese, verità negate da parte di alcuni uomini in divisa appartenenti ad un corpo militare dello Stato, l’Arma dei Carabinieri.

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Ma è anche una battaglia per l’affermazione del principio che la giustizia è uguale per tutti, per dimostrare che i pregiudizi fisici o morali su qualunque persona/cittadino sono il male e il retaggio di una sub-cultura arcaica e stantia della società che non è accettabile e sono -pure- quel frutto amaro che porta alla sconfitta dello Stato di diritto e della sua umanità. Ma di cosa stiamo parlando o meglio di chi stiamo parlando? Di Stefano Cucchi e della sua storia, del suo calvario umano trascorso in vita e del suo calvario giudiziario post mortem portato sulle spalle di chi gli ha voluto più bene al mondo e lo ha tenuto “stretto tra le mani” con sé, finché giustizia non fosse fatta. “Adesso Stefano può davvero riposare in pace”… queste le prime parole pronunciate nel novembre 2019 da Rita e Ilaria Cucchi dopo la sentenza di primo grado della Corte d’Assise penale di Roma che ha condannato a 12 anni di reclusione i carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro per omicidio preterintenzionale per il pestaggio subito- nella caserma Casilina di Roma-  dal loro figlio Stefano.

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Dispositivo sostanzialmente confermato in Appello con l’aumento a 13 di anni di carcere il 7 maggio 2021 e sul quale con il terzo grado di giudizio -datato 4 aprile 2022- la Corte di Cassazione ha messo i sigilli finali confermando il reato di omicidio preterintenzionale riportando però la pena detentiva a 12 anni (per esso si intende il fatto delittuoso per il quale la morte sia cagionata a seguito di atti diretti a percuotere o ledere qualcuno ed esista un rapporto di causalità tra i predetti atti e l’evento letale) Inoltre la suprema magistratura ha disposto un processo d’appello bis nei confronti del maresciallo Roberto Mandolini e del carabiniere Francesco Tedesco accusati di avere detto il falso su ciò che era accaduto veramente nella caserma Casilina nella notte tra il 15 e 16 ottobre del 2009. Ma riaccendiamo i riflettori su quei giorni: a Roma il geometra Stefano Cucchi viene fermato per un controllo dai Carabinieri e viene trovato con in tasca alcuni grammi di droga e pertanto portato in caserma per i rilievi del caso. Ma lì nel luogo dove lo Stato dovrebbe subentrare a garanzia e a tutela di un cittadino, privato della sua libertà e affidato dalla legge al suo controllo, per la disposizione di misure cautelari legati all’accertamento di presunti reati, succede qualcosa di insensato, inspiegabile, impensabile: Stefano vive dei suoi momenti di tensione dovuti al fermo e probabilmente da quanto hanno raccontato alcuni militari -presenti quella sera- rilascia risposte poco formali ed educate ma questo non giustifica la reazione incontrollata e fuori dagli schemi dei doveri a cui sono chiamati a rispondere uomini delle istituzioni –soprattutto-  quando indossano una divisa. I carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro pestano di botte e percosse il detenuto creandogli la tumefazione del viso, e gravi lesioni interne ad alcune parti del corpo tant’è che verrà portato in ospedale e da lì inizieranno i suoi ultimi giorni di vita prima del suo decesso -accertato il 22 ottobre 2009- ed in parallelo si avvierà quella macchina destabilizzatrice (con una sua catena di comando) che determinerà una serie dichiarazioni false, di modificazioni o correzioni di verbali, di depistaggi, che serviranno a coprire i veri colpevoli che già si sarebbero potuti appurare, in quello stesso anno. E sì perché quella macchina ostruttiva della verità il suo effetto lo ha prodotto eccome, per ben 10 anni!

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Tra tentativi di scaricare la responsabilità su alcuni medici che ebbero in cura Stefano –processati e poi assolti per omicidio colposo-  o su tre agenti della polizia penitenziaria indagati e sottoposti a giudizio per depistaggio e poi infine assolti. Ed invece abbiamo dovuto aspettare sette processi, tre inchieste, due pronunciamenti della Cassazione per appurare barlumi di giustizia e verità per Stefano e rispettare e onorare la sua memoria da un lato e dall’altro per lenire anni e anni di fatiche, resistenze e dolori di una famiglia e di tutte quelle associazioni a tutela dei diritti civili e umani e di singoli cittadini che hanno condiviso la causa dei Cucchi e non hanno mai perso la speranza di arrivare a verità. Il procuratore generale che in aula che sostenuto l’accusa ha chiarito bene il punto –poi confermato dai giudici- “quel pestaggio è stata una punizione corporale di straordinaria gravità, caratterizzata da un’evidente mancanza di proporzione con l’atteggiamento non collaborativo del Cucchi”. Il comando generale dell’Arma dei carabinieri a sentenza resa ha commentato che si è trattato di comportamenti che tradiscono i nostri valori, ha espresso rammarico e sofferenza per quanto accaduto, annunciando la chiusura in tempi certi e rapidi dell’inchiesta sui provvedimenti disciplinari di loro competenza nei confronti dei responsabili. Queste parole non possono che rasserenarci ma forse si sarebbero dovute pronunciare molto, molto tempo addietro se solo si fosse voluta fare pian luce proprio in osservanza di quei doveri di fedeltà alla Repubblica, dell’adempiere alle proprie funzioni con disciplina ed onore e nel rispetto di quei principi costituzionali come la libertà personale che è inviolabile, tranne che per atto motivato dall’autorità giudiziaria nei modi previsti dalla legge e fermo restando che nessuno può subire violenza fisica e morale quando e sottoposto a restrizioni di libertà, a cui tutti sono  chiamati a rispondere.

Ma un dubbio permane nelle nostre menti, di modesti pensatori…ma se Stefano non fosse stato un ragazzo con problemi di droga dai quali stava cercando di uscire e trovare un suo riscatto nella società, sarebbe stato massacrato di botte e percosse –tali- da portarlo alla morte? Carlo Bonini su La Repubblica nel novembre del 2019 –in occasione della sentenza di primo grado- ha affermato: Stefano era un “drogato di merda” e come tutti a i “drogati di merda” fu riservato il destino che tocca agli ultimi. I drogati prendono le botte in caserma e non parlano. I drogati di “merda” vengono lasciati contorcersi negli spasmi prodotti da un catetere che non drena perché se la sono cercata, perché sono “oppositivi”. Parole crude, parole forti, da brividi quelle offerte alla nostra riflessione dal giornalista Bonini, ma realisticamente attuali, rispecchianti un modo di pensare sbagliato e moralmente diseducativo che fa male al cuore, fa male dentro, che dovrebbe toccare e svegliare le coscienze di tutti noi affinché altri casi Cucchi, Uva, Aldrovandi non si verifichino più, perché la “cultura dello scarto, del diverso e degli esclusi” almeno in questo secolo non ha ragioni di esistere e non ha sponde giustificative su cui approdare. La giustizia trionfa solo quando vale per tutti e quando vince il diritto dell’umanità a prescindere. Questo e solo questo renderà lo Stato più credibile e più autorevole agli occhi dei suoi cittadini.  

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