di MASSIMILIANO LEPERA
Ce lo siamo mai chiesti quanto ancora, nel XXI secolo, siamo classici? Le fatidiche “lingue morte”, il greco e il latino, quanto ancora pulsano nei nostri cuori e si riflettono nelle nostre menti, a distanza di secoli, anzi millenni? L’eredità che infatti ci hanno lasciato la tradizione e la civiltà classica sono molto più consistenti e longeve di quanto, oggi, si possa pensare. Per andare sul piano pratico, basti pensare al termine “scuola”: oggigiorno con questo termine, legato spesso a contraddizioni normative e burocratiche, ma soprattutto connesso a un patrimonio di valori educativi e antropologici atti alla formazione dei futuri cittadini, i giovani di oggi – e non solo - intendono in particolare un’istituzione statica e noiosa presso la quale si è costretti a studiare giornate intere per raggiungere obiettivi non sempre chiari.
Ma che cosa significa scuola in realtà, o meglio, a quale radice classica è connesso questo vocabolo? Il termine è connesso al greco antico scholé (da cui poi è derivato il latino schola, che ha fornito l’origine etimologica alle lingue romanze e a gran parte degli altri idiomi: italiano “scuola”, spagnolo “escuela”, francese “école”, portoghese “escola”, rumeno “scoala”, inglese “school” e tedesco “Schule”), che in origine stava a significare piuttosto il tempo libero (corrispondente all’otium dei Romani), ovverosia il piacevole uso delle proprie disposizioni intellettuali, a prescindere e indipendentemente da qualsivoglia scopo pratico o bisogno. Il termine, insomma, indicava tutto ciò che non era un obbligo, un impegno, una noiosa applicazione. Più tardi, tuttavia, tale vocabolo passò a indicare il luogo dedito allo studio, accezione mantenuta fino ai giorni nostri.
Ma qual era la concezione antica di scuola? Proprio all’interno della fiorente civiltà greca, intorno al VI-V secolo a.C., tale istituzione, scevra da oneri e preoccupazioni pratiche o religiose, era simbolo di un’educazione del tutto liberale. In particolar modo Atene, patria della democrazia, fornì all’educazione scolastica una certa organizzazione e articolazione graduata: i giovani imparavano a leggere, a scrivere e a fare i calcoli tra i 7 e i 18 anni, con il supporto del grammatista, mentre sotto la guida del citarista apprendevano a suonare la cetra, nonché i rudimenti della poesia melica, e con il pedotriba si dedicavano all’educazione fisica. Questa era l’educazione scolastica di base – dalla quale si notano già la predominanza della musica e della ginnastica, fondamentali per lo sviluppo dei ragazzi, secondo l’ideale latino del “mens sana in corpore sano” – alla quale potevano aggiungersi, sporadicamente e in maniera meno sistematica, gli insegnamenti di geometria, tattica e altre discipline affini. Soltanto con l’avvento dei sofisti, nel V secolo a.C., in piena età classica, si dà risalto alla cosiddetta pedagogia teoretica, che pone al centro l’educazione e la formazione mediante la cultura, introducendo indirizzi differenti nell’ambito di una educazione superiore, specialmente dedita alla formazione filosofica e politica da una parte, a quella retorica dall’altra.
A Roma, poi, l’educazione restò a lungo in ambito privato e familiare, a causa della sua finalità pratica, e divenne pubblica soltanto grazie all’influsso greco, intorno al secolo III-II a.C., periodo in cui nacque anche la letteratura latina. I ludi magistri impartivano le nozioni elementari all’interno delle scuole di grammatica. A queste poi si aggiunsero le scuole di retorica nel I secolo a.C., giungendo a un graduale, se pur lento, processo di statizzazione scolastica fino al IV secolo d.C., soprattutto per impulso degli imperatori. La nostra istituzione, dunque, pur non sempre apprezzata e valutata positivamente, deriva da una longeva e austera tradizione che, con vari rivolgimenti, ha fatto sì che il diritto all’educazione fosse sempre più democratico e pubblico, consentendo, a poco a poco, a tutti di poter usufruire della cultura e procurarsi un piccolo spazio consapevole nel mondo. (continua)
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